Joan As Police Woman: "Adesso non ho più timore di fare la musica che amo"
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La cantautrice americana arriva in Italia per due concerti e racconta a Tgcom24 come l'ultimo album, "The Classic", ha rappresentato per lei una svolta
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Dopo l'antipasto primaverile torna in concerto in Italia Joan As Police Woman. Due date, il 16 luglio a Pistoia blues e poi il 20 a Roma, all'Auditorium Parco della musica in una serata speciale con Suzanne Vega e Cat Power. "E' un periodo speciale - spiega a Tgcom24 -, con l'album 'The Classic' c'è stata una svolta, ho finalmente capito che non devo temere di fare la musica che mi piace".
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"The Classic" è sicuramente un lavoro non comune, dove Joan ha fuso con mano felice il suo stile inconfondibile con influenze soul e R'n'B. Una carriera lunga la sua, iniziata come musicista al servizio di altri talenti all'epoca ancora alle prime armi (Antony & The Johnsons, Rufus Wainwright), segnata suo malgrado dal legame con Jeff Buckley, e che si è dipanata in maniera sempre più chiara, con un percorso di maturazione che l'ha portata dove si trova ora. "Credo che dopo aver pubblicato tre dischi, quattro con quello di cover, mi sono sentita molto più sicura di me, più fiduciosa nei miei mezzi - spiega - e inoltre mi preoccupo meno di come possa venire accolta una cosa".
Cosa è cambiato dentro di te?
In passato ho evitato di realizzare certe cose per la convinzione di non essere abbastanza brava vocalmente, o di non essere all'altezza di un certo tipo di musica. Questa volta ho promesso a me stessa che avrei finito le canzoni prima di iniziare a criticarle e convincermi che non sarebbe stato appropriato pubblicarle.
Il risultato è "The Classic", un album che può spiazzare al primo ascolto per certe sonorità inaspettate...
Ho sempre amato molti generi musicali, compreso l'R&B e la soul music. Quando non ti imponi dei vincoli da sola, ti dai l'opportunità di fare la musica che ami e questo ti trascina come mai era capitato. Quando ho ascoltato il disco finito ho pensato "ma come ho potuto impedirmi fino a ora di fare questo?".
Avevi in mente il sound già al momento della scrittura dei brani o si formato nel corso della lavorazione?
Non parto con un'idea predefinita e ho scelto i musicisti che avrebbero lavorato con me proprio per la loro capacità di dare un contributo agli arrangiamenti. Molte delle canzoni di questo disco sono nate con un'idea di arrangiamento ma poi ho cercato di non svilupparla completamente in modo da lasciare spazio a un'evoluzione data dall'ispirazione del momento. Credo che tu non possa realmente catturare la musica ma devi condurre ovunque da lei, e spesso non sai dove stai andando.
La title track è addirittura un brano di doo-whop...
E' nata mentre strimpellavo al piano. Non volevo un tipico rock'n'roll sound, ma qualcosa di esclusivamente vocale. La cosa divertente è che nessuno di quelli che hanno cantanto sul disco aveva mai cantato doo-whop ma sono tutti di New York, dove senti cantare in quel modo ovunque, anche in metropolitana. Ho pensato che la nostra versione potesse essere una sorta di adattamento personale del doo-whop e alla fine ci siamo avvicinati all'originale più di quanto immaginassi.
Pensi che questo sia un momento di svolta nella tua carriera?
Credo di sì. Per fare un esempio di come affronto diversamente la musica, quando registriamo, dopo che una canzone ha preso forma, in genere continuiamo a jammare per un po'. Nel passato però tendevo a sfumare il pezzo subito e a escludere quelle improvvisazioni sul finale. Questa volta ho sentito che suonavano così bene, c'era un feeling così speciale con la band, che ho deciso di lasciarle. Era un'occasione da non perdere. Alcune canzoni durano quasi sette minuti ma credo che chi ama la mia musica possa apprezzare questo fluire spontaneo.
Nei mesi scorsi hai cantato un brano degli Afterhours per la nuova versione di "Hai paura del buio?". Come è nata la vostra collaborazione?
Me li ha presentati la mia promoter italiana. Io non li conoscevo ma lei ha insistito, e se lei mi dice qualcosa io mi fido, non provo nemmeno a discutere. Avevo paura di cantare in italiano perché sono consapevole che si sente che sono un'americana che prova a cantare in una lingua non sua e so che è un effetto fastidioso. Ma mi hanno convinta e probabilmente la cosa è venuta il meglio possibile. Spero che la gente sia comprensiva con me...
Tu hai suonato anni fa con artisti poi cresciuti e diventati celebri, come Antony Hegarty o Rufus Wainwright. Cosa pensi riguardando a quel periodo?
In quegli anni New York era una fucina, succedeva qualcosa che non saprei nemmeno bene definire. Sono stati giorni ricchi di emozioni. E gli artisti come Antony, nonostante facessero musica da tempo, avevano i loro fan in città ma fuori dal quel contesto non erano molto conosciuti. Non c'erano molti soldi e suonavamo in posti che anche definire piccoli è riduttivo. Antony ha lavorato molto sodo, sono felice che alla fine tutto questo sia stato ripagato. Rufus è un artista così prolifico. Ho fatto tour con lui e alcuni dischi: con la sua visione musicale c'è stata una grande comunione di intenti.
Invece oggi com'è la scena newyorchese?
Oggi sta accadendo qualcosa di diverso che però è ugualmente eccitante. Brooklyn è letteralmente esplosa, sono arrivati musicisti da ogni angolo del mondo. E' folle e a volte persino un po' ridicolo, ma ogni persona nella metropolitana ha una chitarra. Non ho cognizione di tutte le cose che stanno accadendo in quella scena, sono davvero troppe, ma ci sono degli artisti di grande valore. New York è una città con così tante informazioni e stimoli che è sempre incredibilmente creativa.