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Colossi del web, è giusto che paghino le tasse solo dove hanno la sede fiscale? | Guarda l'ottava puntata di "Fatti e Misfatti d'Europa"

L'approfondimento settimanale, realizzato in collaborazione con il Parlamento europeo, è andato in onda martedì 9 marzo. Ospiti dell'ottavo appuntamento Maria Elena Scoppio e Carlo Alberto Carnevale Maffè

Da anni, soprattutto in Europa, ci si chiede: è giusto che i colossi del web, pur operando in tutti i Paesi, paghino le tasse solo dove hanno la sede fiscale? Ed è proprio attorno a questa domanda che ruota la nuova puntata di "Fatti e Misfatti d'Europa", il programma di Tgcom24 realizzato in collaborazione con il Parlamento europeo. La questione ha avuto ancora più enfasi con la pandemia di Covid, perché grazie all'online queste aziende non hanno risentito del blocco alle attività produttive. Al contrario, hanno aumentato non solo i propri profitti ma anche la loro capitalizzazione in borsa. Di recente, però, complice anche l'elezione di Biden, il sistema di tassazione di queste aziende è stato rimesso in discussione. Ne abbiamo parlato con gli ospiti dell'ottavo appuntamento: Maria Elena Scoppio, consigliere per la fiscalità della Commissione europea, e Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di strategia e imprenditorialità all'Università Bocconi di Milano.

Tasse e colossi del web - Il rapporto tra i giganti del web e le tasse è una questione per la quale non si è ancora trovata una soluzione. Un problema irrisolto che riguarda tutto il mondo. Secondo la fotografia scattata sul 2015-2019 dall'Area Studi di Mediobanca, grazie al fisco agevolato di alcuni Paesi i colossi del tech sono riusciti a risparmiare circa 46 miliardi. Inoltre, i 25 big del settore hanno avuto, nel periodo preso in considerazione, un fatturato superiore ai 1000 miliardi e dominano in un settore che non ha avuto grosse conseguenze durante la crisi del coronavirus. La questione è oggi sul tavolo dell'Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che sta cercando di trovare una soluzione sovranazionale che consenta di affrontare il problema. 

 

Proprio in sede Ocse, molti Paesi, soprattutto quelli europei, sollecitano da tempo un riequilibrio del sistema. All’interno dell’Unione europea, però, non tutti sono d'accordo: tra i 27 esiste un diverso regime di tassazione e nel 2021 si cercherà di varare una tassa digitale a livello europeo. Ma i paradisi offshore europei, come Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo, proveranno a mettersi di traverso. L'elezione di Biden potrebbe però portare a una soluzione condivisa. Gli Stati Uniti potrebbero abbandonare la clausola del safe harbor, porto sicuro, che finora ha ostacolato un accordo internazionale. Nel corso del vertice del G20 del 26 febbraio la neosegretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen ha anticipato un cambio di atteggiamento che potrebbe fare uscire le trattative dallo stallo in cui si trovano da tempo. L'obiettivo è trovare un accordo a metà del 2021 puntando a inserire aliquote minime su tutti i Paesi e un meccanismo di ripartizione dei profitti delle società nelle varie nazioni dove sono presenti. 


"Per quanto riguarda la tassa, c'è stato già un primo tentativo qualche tempo fa con l'adozione di una proposta per un'imposta sulle attività digitali. Questa è servita da esempio per gli Stati membri che hanno voluto adottarla (ce ne sono alcuni che lo hanno già fatto) - spiega Scoppio -. I lavori però sono stati interrotti per cercare di trovare un accordo globale che possa coinvolgere piuttosto che confrontare i Paesi che si trovano all'esterno dell'Ue. Avere uno scenario imprenditoriale che possa essere considerato giusto è fondamentale per chiunque si trovi a operare non sono a livello digitale ma anche tradizionale. All’interno della stessa economia digitale è necessario riuscire a stabilire una regola che faccia in modo che chiunque operi in Europa sia soggetto allo stesso tipo di imposizione. E’ evidente che sarebbe necessario trovare quindi qualcosa che possa vedere d'accordo anche i nostri partner internazionali. L'Ocse finora ha cercato di procedere per questa strada e devo dire che le cose si sono piuttosto arenate fino all’elezione di Biden. La responsabile per questi negoziati a livello Ocse con gli Stati Uniti ci ha recentemente fatto presente che gli Usa sono intenzionati a riprendere dei negoziati costruttivi. Di conseguenza, speriamo di poter arrivare a una soluzione che sia condivisa e quindi applicabile non solo a livello europeo ma anche internazionale per fare in modo che tutti gli operatori del web siano soggetti allo stesso tipo di obblighi fiscali. Questo chiaramente renderebbe la concorrenza molto più equa all'interno e all'esterno dell'Europa".

 

E' giusto parlare di riequilibrio di sistema? Secondo Carnevale Maffè sì, ma "non in maniera punitiva". "Parlare di web tax - dichiara - è proprio sbagliato perché non si può tassare il web. Anzi per fortuna che il web c’è, altrimenti non avremmo potuto lavorare, insegnare e comprare in quest’anno di pandemia. Ricordiamoci che alle piattaforme digitali dobbiamo la continuità operativa di tante attività sociali ed economiche. Detto questo, è evidente che in quest'anno loro abbiano potuto ampliare la propria base di mercato e guadagnare quote. Dal mio punto di vista, buon per loro. Certo che per l'Europa è una sconfitta, perché in questi 20 anni non ha saputo sviluppare piattaforme analoghe a quelle di Google, Facebook, Amazon ed Apple. Quindi dobbiamo interrogarci noi come Ue: come mai non abbiamo creato le condizioni? Questa è la prima domanda fondamentale. La seconda è sulla tassa. E' chiaro che il modello fiscale è ottocentesco, basato sulla divisione del valore aggiunto sulle sedi permanenti, sulle attività territoriali. Quando parliamo di software parliamo di un modello di dispersione di valore aggiunto che non è più solo geografico. Allora, arrivare a una tassazione equa presuppone la ridefinizione delle quote di valore aggiunto. Tuttavia, tassare le importazioni è un dazio e come tale non si può pensare di introdurre perché alla fine è una forma di guerra commerciale. Invece distribuire la tassazione sulla catena del valore sì, come sta cercando di fare l'Ocse. Dire 'dobbiamo aumentare le tasse' non è la risposte corretta, è invece già un’opzione più ragionevole affermare che dobbiamo far convergere le tasse, farle armonizzare".

 

Web tax - Passiamo, appunto, alla tanto discussa web tax. Di cosa si tratta? E' una tassa la cui discussione sta avvenendo all'interno della sede Ocse coinvolgendo 135 Paesi. Ma già nel marzo del 2018, la Commissione aveva lanciato un programma per dar vita a una equa tassazione delle imprese digitali che prevedeva due tasse: una temporanea e poi una di lungo termine per effettuare una vera e propria riforma fiscale.


Non è detto che l'apertura di Jellen si traduca in un accordo sicuro. Come si muoverà l'Ue qualora non si dovesse arrivare a un accordo internazionale? "Stiamo lavorando per essere pronti sia in caso di accordo sia in caso di non accordo", dice Scoppio, che aggiunge: "Premetto che abbiamo trovato la cooperazione dove non credevamo di trovarla. E cioè proprio nelle big companies che sarebbero soggette a una tale tassa. Perché in assenza di un accordo a livello internazionale o in misura minore a livello europeo si troverebbero a confrontati con teoricamente 27 tasse diverse a livelli nazionali distinti. Detto questo, tutto lascia ben sperare per una ripresa dei negoziati. Sappiamo che i prossimi incontri determinanti saranno a luglio di quest'anno. Naturalmente, speriamo che entro questa data ci possa essere un accordo, ma è legittimo credere che questo potrebbe non accadere. Qualora questo non dovesse succedere, la von der Leyen ha già annunciato l'intenzione della Commissione di lanciare una nuova proposta, che andrebbe a sostituire quella presentata nel 2018 e che avrebbe non solo lo scopo di anticipare i risultati a livello Ocse, quindi facendo tesoro di quello che è stato discusso a livello internazionale, ma anche una funzione di risorsa propria per l'Ue, per far fronte agli obblighi finanziari che sono stati assunti per rispondere alla crisi generata dalla pandemia".

 

"Francamente, l’idea di porre una gabella delle transazioni digitali è senza fondamento - è invece l’opinione di Carnevale Maffè -. Le proposte del 2018 non sono una tassazione seria. Ai grandi gruppi sta benissimo che l’Ue faccia tutto questo perché tanto col loro potere di mercato scaricano a valle, e quindi sulle spalle dei piccoli inserzionisti, ogni forma di prelievo fiscale. E' un fenomeno assolutamente realistico, è quello che sta succedendo. La verità è che dobbiamo convincere le Google e Facebook a costruire attività a valore aggiunto, ad assumere, ad avere centri di sviluppo e tecnologie in Europa. Perché almeno quota del valore aggiunto verrebbe installata qui e l'Europa a quel punto potrebbe legittimamente e correttamente pretendere una sua base fiscale. Questo è il punto: rendere l'Europa attrattiva per le tecnologie, non respingerle perché rubano il lavoro (cosa falsa) o tassarle perché portano via lavoro alle pmi (cosa falsissima). Abbiamo bisogno di far ritornare l'Europa il centro mondiale delle tecnologie. Ricordo che lo eravamo e in 20 ci siamo persi per strada. Inoltre, quando questi colossi sono così grossi più che tassarli bisogna minacciare di spacchettarli, questa è la vera arma: quella antitrust non fiscale". "Dobbiamo quindi essere un luogo attrattivo e non repulsivo, altrimenti perdiamo la battaglia della competitività internazionale, vincono Cina e Stati Uniti che sono più grandi e molto determinati sul fronte", conclude l'economista. 


Web tax e digital tax: le differenze - Per molti sono la stessa, ma in realtà non è così. Con web tax - proposta da Commissione europea e Ocse - si intende una sorta di tassazione da conferire alle multinazionali che lavorano nel mondo del digitale a livello però globale; con digital tax, invece, si intende un provvedimento nazionale, preso da singoli Stati in attesa che ci sia un coordinamento internazionale. Diversi Paesi hanno intrapreso la strada della digital tax: tra questi l'Italia, la Francia - tra i primi Paesi ad aprire uno scontro coi big del tech -, ma anche Germania, Spagna e Austria, che hanno fatto delle proposte di legge in questa direzione. Ad ogni modo, tutti gli Stati richiedono che ci sia un coordinamento a livello europeo e internazionale. 

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