In arrivo l’album His Black Orbit Never Ends
C’è chi considera l’ambient una carezza sonora, un sottofondo gentile che accompagna le giornate. Poi c’è Mirai No Hagaki, al secolo Davide Perico, che con il nuovo album His Black Orbit Never Ends (in uscita il 26 settembre 2025) ha deciso di ribaltare completamente questa percezione: otto tracce che non cullano, ma feriscono. Non troverete questo lavoro su Spotify — scelta che è già di per sé una dichiarazione politica — ma su Bandcamp e sulle principali piattaforme digitali. Un disco che non consola, ma urla.
Abbiamo incontrato l’artista per farci raccontare come nasce questo viaggio oscuro, fatto di orbite infinite, vuoti cosmici e sarcasmi sonori.
La prima domanda è inevitabile: perché His Black Orbit Never Ends?
Perché volevo evocare l’infinito e la prigionia insieme. L’orbita nera è cosmica, certo, ma è anche una condanna: un movimento eterno che non porta a nulla, come le logiche di guerra e corruzione che continuano a girare senza sosta. Non è un titolo poetico, è un titolo feroce.
Molti si aspettano dall’ ambient un’esperienza rilassante, quasi terapeutica. Tu invece sembri volerla negare.
Sì, volutamente. L’ambient è diventata troppo spesso un sottofondo che addolcisce il silenzio. Io volevo fare il contrario: creare musica che interrompe, che mette a disagio. His Black Orbit Never Ends non è un cuscino sonoro, ma una ferita. È un urlo, non una ninna nanna.
Parli di urlo. Cosa significa per te, concretamente, in musica?
Significa reagire. Questi otto brani non li ho scritti con calma: li ho letteralmente vomitati fuori dopo mesi di insonnia e incubi. Sono un urlo contro chi lucra sulla morte, contro i politici corrotti, contro i signori della guerra. La musica qui non è intrattenimento, è resistenza.
Come hai tradotto questa rabbia in termini musicali?
Attraverso droni che non si risolvono, armonie microtonali che stridono, strutture senza ritmo o con ritmi deformati. Volevo che l’ascoltatore non trovasse mai consolazione. È un suono ostile, volutamente difficile. La mia esperienza come sound designer mi ha aiutato: nei film creo atmosfere che accompagnano; qui ho costruito ambienti che disturbano.
La tua scelta di non pubblicare l’album su Spotify è molto forte.
Sì, perché non è solo una questione economica. Il CEO di Spotify investe in startup militari: non posso permettere che un disco nato come protesta finisca a generare profitti per quelle stesse logiche che sto denunciando. La distribuzione non è neutra: decidere dove pubblicare è un atto politico.
I titoli dei brani sono sarcastici, quasi provocatori.
Esatto. Sing Along with the Void (It Misses You) è un invito beffardo: canta con il vuoto, ti reclama. Orbit of Dread (But Please, Pretend It’s Fine) ironizza sul nostro modo di convivere con l’orrore fingendo che tutto sia normale. Frozen in the Nebula (You Always Did Love Being Stuck) racconta la nostra passione patologica per lo stare fermi, bloccati. Ogni titolo è già un messaggio politico e poetico, una ferita che precede l’ascolto.
Quindi non chiedi all’ascoltatore passività, ma una vera partecipazione.
Esattamente. Non è un album per rilassarsi. Richiede attenzione, responsabilità. È un campo di battaglia, non un rifugio. Quando lo ascolti, ti trovi davanti a uno specchio oscuro. Non ti lascia neutrale, non ti accompagna: ti mette in crisi.
Che cosa speri che resti dopo l’ascolto?
Non spero che resti qualcosa di piacevole. Vorrei che restasse un segno, una cicatrice sonora, un ricordo disturbante che continua a orbitare dentro chi ascolta. Non è un album che ti lascia andare via tranquillo: vuole restare lì, come l’eco di un urlo nello spazio.
Questo è Mirai No Hagaki: un artista che non teme di disturbare, di rompere gli schemi, di usare la musica come arma politica e poetica. His Black Orbit Never Ends non è un’opera per tutti — e proprio per questo, è un’opera necessaria.