Speciale Il conflitto in Medioriente
Il ritorno alla vita non è facile

Israele, le testimonianze degli ostaggi liberati: "Legati, senza cibo e senza acqua"

I racconti: "Ci dicevano che non saremmo mai usciti vivi dai tunnel, che nessuno ci cercava: né le nostre famiglie, né il governo. Nessun accordo ci avrebbe liberati. Eravamo dimenticati"

15 Ott 2025 - 13:14

Non è facile il ritorno alla vita per gli ostaggi tornati in Israele. Gli ultimi venti sono stati "restituiti", hanno abbracciato le famiglie, le fidanzate, le mogli, hanno potuto lavarsi e sdraiarsi in un vero letto. Ma, raccontano i medici che li hanno visitati e i parenti, "ancora devono tornare veramente. Non sanno come ricominciare a vivere". I familiari e i dottori che li seguono riportano le loro testimonianze, dicono che "sono stati legati" e parlano di "abusi fisici e psicologici", di "fame e sete", di "torture".

Le storie

 Avinatan Or, 32 anni, rapito al festival Nova con la sua ragazza Noa Argamani è uno dei casi considerati più gravi dagli specialisti. La foto di lei portata via in moto mentre urlava verso il suo compagno è uno dei simboli del 7 ottobre. Lei è stata salvata dall'Idf con un blitz nel giugno 2024 mentre veniva tenuta prigioniera in casa di un giornalista, lui è stato tenuto in isolamento totale per due anni di seguito nella Striscia di Gaza centrale. Non ha mai incontrato altri ostaggi, ha sofferto continuamente la fame. Un primo esame medico ha rilevato una perdita di peso tra il 30 e il 40%. Dopo il rilascio, Or ha chiesto di poter trascorrere del tempo da solo con Noa.

Evyatar David, 24 anni, è stato rapito al rave con il suo migliore amico d'infanzia, Guy Gilboa-Dalal. In un video diffuso due mesi fa, appariva scheletrico, incapace di muoversi dentro un tunnel basso e buio, costretto a scavarsi una fossa. Il consolato di Israele a New York ha fatto proiettare quelle immagini terribili a Times Square. "Ha subito abusi fisici e psicologici. È confuso. Ci ha raccontato che le cose più difficili sono state la fame e la sete", ha detto in diverse interviste il padre Avishai. "Evyatar a un certo punto è stato separato dal suo amico Guy, ha sofferto per tutto il periodo di prigionia di maltrattamenti fisici e psicologici. Anche dopo la pubblicazione di quella clip, Hamas ha continuato a privarlo del cibo. Hanno cercato di spezzarlo", ha aggiunto.

Il ritorno in Israele dei primi ostaggi liberati da Hamas

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La madre di Matan Angrest, 22 anni, ha dichiarato ai media che il giovane "ha subito pesanti torture nei due anni trascorsi dal momento del rapimento. Ha ustioni molto gravi alla mano destra, ha diversi danni alle dita". La prima notte da uomo libero ha dormito con i suoi genitori.

Al Rabin Medical Center, Guy Gilboa-Dalal, 22 anni, è circondato dalla sua famiglia. Per un periodo in cattività è stato con David, "soffrivano in condizioni terribili di malnutrizione e venivano sottoposti a intensi abusi fisici. Venivano legati e costretti a sedere per lunghi periodi di tempo, rivolti verso un muro, con sacchi neri sulla testa, senza bere". I parenti hanno riferito che quando i carcerieri non se ne accorgevano, prendeva acqua sporca da un barile usato per tirare lo sciacquone: solo per dissetarsi dopo essere rimasto così disidratato da non riuscire a parlare. Lunedì dopo il rilascio, in ospedale gli hanno portato la sua chitarra e i cimeli del Maccabi Haifa.

La dottoressa Eliakim-Raz del Soroka hospital ha raccontato che "molti non hanno chiuso occhio tutta la notte. Stiamo adattando i controlli ai loro ritmi. Dopo due anni sottoterra senza una routine, adattarsi a una sola visita al giorno è un passo importante e difficile nella riabilitazione. Ciò che desideriamo di più è restituire loro il controllo".

"Il tempo non esisteva, il cielo era scomparso"

 Il Messaggero rivela ulteriori testimonianze, riportate da un'altra dottoressa che sta seguendo gli ostaggi, Einat Yehene. "Non sapevo più se fosse mattina o notte. Tutto era uguale, il tempo non esisteva, il cielo era scomparso. Ho cercato di segnare i giorni con un bastoncino sulla terra, ma era impossibile orientarsi" è uno dei racconti.

"Ci dicevano che non saremmo mai usciti vivi dai tunnel"

 "Un giorno i carcerieri mi dissero che era il mio anniversario di nozze. Mi tolsero le catene per poche ore e mi permisero di fare una doccia. Solo allora ho ricominciato a contare i giorni", è la testimonianza di un altro ostaggio. I racconti continuano: "Ci dicevano che non saremmo mai usciti vivi dai tunnel, che nessuno ci cercava: né le nostre famiglie, né il governo. Nessun accordo ci avrebbe liberati. Eravamo dimenticati. Per due anni non ci hanno fatto usare le scarpe e molti di noi sono rimasti incatenati. Non si sono più mossi. Una volta liberati avevano dimenticato come si camminava. Dormivamo sul pavimento, circondati da insetti e sporcizia. Vivevamo come animali. Ci hanno tenuto per molto tempo così come eravamo quella notte: in pigiama, con i vestiti del festival, senza poterci cambiare". 

Da Netanyahu biglietti scritti a mano per gli ostaggi: "Vi abbiamo aspettato e vi abbracciamo"

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"Restavamo giorni interi senza mangiare, poi all'improvviso ci facevano ingozzare"

 E ancora: "Restavamo giorni interi senza mangiare, poi all'improvviso ci facevano ingozzare. Ci davano vitamina, cibo a forza. Dicevano che era 'per prepararci'. Noi sapevamo che ci avrebbe fatto male. Mangiare era diventato una paura. Cercavamo di farlo piano, a piccoli morsi. Ma il corpo non rispondeva più. Ci ​​picchiavano mentre eravamo legati, ci bruciavano con il metallo. Il peggio non era la fame, era la mente. Ti dicono che il mondo non parla più di te. Ti convincono che non esisti più. Cantavamo piano, sottovoce. Pregavamo. Alcuni parlavano da soli, per non impazzire".

Poco prima del rilascio, tuttavia, ha spiegato una delle donne liberate, "ci ​​facevano camminare per ore, per essere pronti, per mostrarci in forza davanti al pubblico. Come se non ci avessero maltrattati. Non volevano far vedere al mondo che eravamo spezzati. Volevano un'immagine perfetta. Ci hanno lavato, dato abiti nuovi. Dovevamo sembrare vivi".
 

La dottoressa: "È un trauma che non è 'post'. È ancora in corso"

 "Non sopportano il rumore, né la luce del giorno. Si coprono gli occhi, si immobilizzano appena sentono un suono improvviso. È un trauma che non è "post". È ancora in corso. Come per i soldati che tornano dalla guerra mentre la guerra non è finita", ha spiegato la dottoressa Yehene.