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Israele, un italiano appena rientrato: "Sirene, razzi e paura... ma ora il pensiero va a chi resta là"

A Tgcom24 la testimonianza di Simone Teso, mental coach 49enne di Pordenone, che si trovava in pellegrinaggio nel Paese durante l'attacco di Hamas

Israele, un italiano appena rientrato: "Sirene, razzi e paura... ma ora il pensiero va a chi resta là" - foto 1
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Ora la paura è alle spalle.

Ma il ricordo di quanto vissuto a Gerusalemme, sabato 7 ottobre, il giorno dell'attacco di Hamas a Israele, è più vivo che mai in Simone Teso, mental coach 49enne di Pordenone. Le sirene, i boati dei razzi, la paura e la fuga nei bunker hanno interrotto bruscamente il suo viaggio. Teso, che lunedì è riuscito a tornare in Italia dopo un "viaggio della speranza", racconta a Tgcom24 quanto vissuto e sottolinea: "Si sentivano i boati e io non li avevo mai sentiti, così come non avevo mai sentito le sirene anti-razzo. Sono cose che colpiscono. Noi siamo tornati, però lì c'è tanta gente che vive nella paura. Civili nel mezzo di una guerra che non so nemmeno se finirà mai".

 

Perché si trovava in Israele?

"Ero in Israele con un gruppo di trenta persone per fare un viaggio spirituale, un pellegrinaggio. Siamo partiti lunedì 2 ottobre. Tutto è andato benissimo fino a sabato mattina. Quel giorno, avevamo la visita al Santo Sepolcro, quindi ci siamo svegliati alle 5:30 e siamo partiti intorno alle 6 in modo da essere lì presto. Già durante le prime ore del tour, la guida ci ha detto: "È successo qualcosa di importante, hanno cominciato ad attaccare, stiamo tranquilli, vediamo come procede". Dopo la visita al Santo Sepolcro, ci siamo spostati al Muro del Pianto, ma, appena entrati, hanno iniziato a suonare le sirene".


E cosa avete fatto?
"Siamo corsi nel bunker più vicino, un tunnel. C'erano tante persone. Ci siamo rimasti una mezz'oretta. Poi siamo usciti, eravamo tutti frastornati, anche se la guida è stata molto brava a cercare di tranquillizzarci. Poi, però, la sirena è risuonata e quindi siamo rientrati nel tunnel. Siamo rimasti lì circa 40 minuti. In quel caso, è stato un po' più preoccupante perché alcuni degli ebrei presenti saltavano e cantavano, dicendo, secondo la traduzione della guida: "Vinceremo la guerra, li ammazzeremo tutti". Poi abbiamo visto militari che correvano con i fucili. Insomma, si percepiva una situazione complessa. Si sentivano i boati e io non li avevo mai sentiti, così come non avevo mai sentito la sirena di guerra. Sono cose che colpiscono".

 


Quanta paura avete avuto?
"La preoccupazione era tanta. Dopo i 40 minuti trascorsi nel bunker, ci siamo spostati per tornare in hotel. Prima di arrivare, abbiamo notato tafferugli per le strade, visto proprio le scie dei razzi e sentito di nuovo le sirene. Inoltre, non potevamo essere certi che i miliziani di Hamas non arrivassero fino a noi, a Betlemme, dove alloggiavamo. Quindi, sì, avevamo paura. Devo dire, però, che la guida è stata molto capace e che la nostra agenzia di riferimento ci ha seguito attentamente, trovando rapidamente un volo che ci portasse in Italia: lunedì 9 ottobre, di mattina presto da Amman, in Giordania."


E così lunedì siete rientrati…
"Sì, dopo un viaggio della speranza e sempre con il timore di non riuscire a tornare a casa. Innanzitutto, per raggiungere il checkpoint ed entrare a Gerusalemme abbiamo impiegato due ore, mentre il giorno prima erano bastati 15 minuti. Quando è arrivato il nostro turno, l'autista del bus su cui viaggiavamo ci ha detto: "State tranquilli, alzate i passaporti, state zitti, non dite niente e state seduti composti". Dopodiché, è entrato un soldato armato dalla porta anteriore, noi abbiamo mostrato i documenti e lui ci ha detto: "Ok". Stavamo abbassando le braccia quando dalla porta posteriore del pullman è entrato un altro soldato, che ha urlato: "Chi siete? Cosa volete da noi? Alzate i passaporti". Insomma, è stato complesso, ci hanno fatto capire chiaramente di essere in guerra e, inevitabilmente, abbiamo avuto paura. Oltretutto, un signore del nostro gruppo non trovava più il visto. Quando il secondo soldato è entrato nell'autobus e ha iniziato a spostarsi verso l'interno abbiamo detto: "Se ci chiede il visto siamo finiti, non ci muoviamo più". Alla fine, per fortuna, non ce l'ha chiesto. Per raggiungere la Giordania, quindi, siamo entrati a Gerusalemme: la paura si percepiva anche dall'interno del pullman. Strade deserte, scuole chiuse, abitanti obbligati a restare in casa, pronti a ripararsi nei bunker. Poi siamo arrivati al confine attraversando il deserto".


Da lì è filato tutto liscio?
"Purtroppo no. Il nostro pullman partito da Israele non poteva entrare in Giordania. Dunque, siamo dovuti scendere e abbiamo dovuto aspettare un autobus giordano, che però non arrivava. Ci chiedevamo se sarebbe arrivato davvero. Alla fine, è giunto un mezzo arrugginito, pitturato con le bombolette, con le gomme lisce e le marce che non entravano. Inoltre, anche in Giordania, i controlli - che pensavamo veloci - sono durati tanto. Comunque, superati quelli, è andato tutto bene. Siamo riusciti anche a mangiare qualcosa dopo più di otto ore di viaggio (per un tragitto che per Google Maps si fa normalmente in un’ora e un quarto)".


Qual è stata la sensazione quando siete rientrati in Italia?

"Tanta tristezza. Noi siamo tornati, però lì c'è tanta gente che vive nel terrore. Il giorno dell'attacco, ho visto la mia guida preoccupata mentre parlava in videochiamata con la moglie. Ecco, queste persone restano lì, civili nel mezzo di una guerra che non so nemmeno se finirà mai."

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