Buon bere

fine drinking Matteo Zed

Con "The Court" ha trasformato Roma in una capitale della mixology contemporanea: una visione raffinata dell’ospitalità

08 Lug 2025 - 07:00
 © Ufficio stampa

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Matteo Zed è senza dubbio una delle figure più riconosciute del bartending italiano. Alla guida di The Court, cocktail bar affacciato sul Colosseo, ha saputo trasformare Roma in una destinazione per gli amanti della miscelazione d’autore. La sua è una visione precisa, frutto di studio, rigore e contaminazione culturale. Ma non solo: Zed continua a guardare avanti, tra nuovi progetti in Italia e il desiderio mai sopito di tornare un giorno oltreoceano. In questa intervista racconta la sua traiettoria, i suoi cocktail simbolo e l’evoluzione di un mestiere che, prima ancora di essere moda, è una forma di ospitalità.

Il tuo percorso professionale ti ha portato a viaggiare e lavorare in contesti molto diversi tra loro. Quali sono stati i momenti chiave che ti hanno formato come bartender e ti hanno spinto a sviluppare una tua visione personale del bar e dell’ospitalità?
Io sono di una generazione in cui abbiamo imparato a gestire grandi folle e lavorare velocemente con le tecniche di American Bar, cominciando nei club che ospitavano migliaia di persone. Poi, piano piano, ci siamo raffinati e abbiamo dato vita a quella che considero la Golden Era della miscelazione, grazie ad esempi come Marian Beke, Stanislav Vardna e Alex Kratena.
Sicuramente l’esperienza in Giappone al fianco di Mr Ueno San ha dato una svolta decisiva alla mia attività: da lì ho ottenuto una nuova visione della tecnica e dell’ospitalità. Senza quella parentesi oggi non sarei il professionista che sono.
Poi ho deciso di andare negli Stati Uniti, perché in Italia mi sentivo spesso messo all’angolo: se non sei allineato a certe logiche, vieni escluso. Combatto ancora oggi con leggende metropolitane su di me diffuse da persone che non hanno mai bevuto uno dei nostri cocktail né mi conoscono davvero. 
Inoltre, il mondo dell’hotellerie italiano era quasi inaccessibile se non facevi parte di certe associazioni di settore. Mi dicevano che ero bravo ma non avevo esperienza in hotel.
Un giorno ho conosciuto Joe Bastianich, ci siamo piaciuti, e lui è stato il mio ponte per arrivare in America. Da lui ho imparato il significato dell’hospitality di lusso. Ho ricominciato da zero: busboy, runner, waiter, head waiter, captain e infine di nuovo bartender. Ho potuto conoscere ogni aspetto del food & beverage, e oggi sarei in grado di gestire qualsiasi reparto.

Hai un legame forte e duraturo con gli Stati Uniti: che ruolo ha avuto l’esperienza americana nella tua crescita professionale e come continua oggi a influenzare il tuo lavoro, anche a distanza? Hai progetti futuri che ti riportano oltreoceano?

Gli Stati Uniti mi hanno dato davvero tanto. È stata un’esperienza dura, a tratti faticosa, ma alla fine gratificante. Lì, per riuscire, devi volerlo davvero: non ti regala niente nessuno. Ma se resisti, se lavori con costanza, alla fine riesci a realizzare quello che sogni. Per me è stato così. L’America mi ha dato l’opportunità di scrivere un libro, che ha rappresentato un punto di svolta. Prima, quando mi presentavano nei bar americani, anche se ero con colleghi noti e rispettati, spesso mi sentivo dire “non so chi sia”. All’epoca il mondo del bar italiano era praticamente sconosciuto negli Stati Uniti: erano due universi separati.

Dopo l’uscita del libro, tutto è cambiato. Sono tornato a New York e, per la prima volta, mi hanno riconosciuto in un locale dove non ero mai stato. Il bartender si è girato, mi ha guardato e mi ha chiesto: 'Sei Matteo Zed?' E ha aggiunto che aveva il mio libro, che lo aveva letto e lo stimava. Poco dopo, in un altro negozio specializzato, un’altra persona mi ha fermato per chiedermi l’autografo. Sono episodi che non dimenticherò, perché rappresentano un riconoscimento concreto dopo tante fatiche.

Avrei potuto restare in Italia, lavorare tranquillamente, guadagnare bene. Invece ho scelto di ricominciare da capo a New York, partendo con uno stipendio minimo, perché volevo imparare tutto, al massimo livello. Ho lavorato in alcuni dei migliori ristoranti e bar della città: sono passato da Becco, uno dei locali di Joe Bastianich, a Daniel di Daniel Boulud; ho fatto esperienze da Gabriel Kreuther per studiare il servizio al più alto livello possibile, e mi sono formato anche nel mondo dei cocktail lavorando in locali come Caffè Dante e The Dead Rabbit.

Ho fatto sostituzioni, turni lunghi, osservato e imparato ogni dettaglio sull’ospitalità, il vino, il servizio, la mixology. E poi, certo, c’era anche la necessità di stabilità economica, così ho accettato ruoli più strutturati, fino a diventare bar manager all’Armani Restaurant.

Quell’esperienza mi ha formato sul piano professionale e umano. Mi ha insegnato a gestire pressioni, critiche, momenti difficili. Mi ha reso più forte. Anche quando sono tornato, e ho dovuto affrontare chiacchiere e giudizi pesanti, ho trovato dentro di me una forza diversa. L’America mi ha insegnato a rimettermi in gioco, ad affrontare tutto con più lucidità. E il legame con gli Stati Uniti continua: ho ancora tanti contatti, stimoli, e sicuramente progetti futuri che potrebbero riportarmi di là dall’oceano.

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The Court è diventato in pochi anni uno dei bar più riconosciuti a livello internazionale. Qual è stata la strategia, la filosofia o l’intuizione che ti ha permesso di raggiungere questo risultato in una città come Roma, non sempre facile per il mondo del bar d’autore?

Il successo de The Court nasce da un approccio che unisce l’esperienza americana a una visione europea. Dopo anni negli Stati Uniti, ho voluto portare in Italia ciò che mancava, a partire dal servizio: negli USA l’accoglienza è fondamentale e strettamente legata al sistema delle mance, che spinge il personale a dare il massimo. Ho trasmesso questo spirito al mio team, insegnando ogni dettaglio del servizio: come si serve un vino, come si porta un vassoio, come si sta accanto al cliente senza mai lasciarlo solo.

The Court è un locale piccolo, quindi ho dovuto ottimizzare ogni aspetto, anche dal punto di vista economico. Ho introdotto un sistema di prenotazioni a slot, come si fa in America, dividendo la serata in fasce di due ore e mezza. Questo ha aumentato l’efficienza e ha raddoppiato i ricavi. In generale, ho applicato tutte le logiche di business, marketing e gestione che avevo visto funzionare negli Stati Uniti: organizzazione prima di tutto. Un locale ben organizzato, come una squadra di calcio con un buon assetto, può vincere. Anche più di un locale pieno di talenti ma senza struttura.

Inoltre, ho voluto abbattere alcune barriere tipiche dell’ospitalità italiana. Nei bar d’hotel americani o inglesi, il bartender è libero di esprimersi, anche nel look: tatuaggi, orecchini, stile personale. Da noi, al contrario, spesso si veniva giudicati o esclusi per queste cose. Ho cercato di cambiare questa cultura e di rendere The Court un luogo elegante ma inclusivo, dove chiunque possa sentirsi accolto, a patto di condividere l’idea di vivere un’esperienza completa, non solo scattare una foto.

L’obiettivo era creare un bar d’autore internazionale nel cuore di Roma, con un’identità forte, professionale ma contemporanea. E penso che ci siamo riusciti.

Con The Court hai contribuito a ridefinire il concetto di bar d’hotel a Roma. Cosa pensi abbia reso possibile questo cambiamento e come vedi evolversi il ruolo del bar d’hotel nelle nuove generazioni?

Con The Court abbiamo cambiato il modo in cui viene percepito il bar d’hotel a Roma, a partire dalla location: una terrazza. Prima le terrazze degli alberghi erano spazi dimenticati, oggi invece sono diventate centrali. Il successo di The Court ha ispirato molti albergatori a replicare quel modello, ma non è facile da riprodurre. Serve cultura, un team preparato, obiettivi chiari e una visione solida.

Abbiamo rivoluzionato anche l’approccio al bar d’albergo, rompendo con quell’immagine rigida e formale fatta di giacche bianche e atteggiamenti austeri. Abbiamo portato freschezza, autenticità e libertà. I bartender da noi possono essere sé stessi, con tatuaggi, orecchini, personalità. Non devono nascondersi, ma sentirsi parte di un ambiente moderno e inclusivo, anche perché i nuovi ricchi a loro volta sono così, e si sentono paradossalmente più a loro agio. Questa è la direzione che vogliamo continuare a seguire anche fuori da Roma: portare un’idea di bar contemporaneo, accessibile ma curato, che parli alle nuove generazioni e non resti ancorato a modelli superati. I progetti futuri andranno proprio in questa direzione.

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Le tue cocktail list hanno sempre avuto una forte impronta concettuale, ma anche grande attenzione alla tecnica e al racconto. Quali sono i drink che senti più rappresentativi del tuo stile? E in che direzione stai lavorando oggi con le tue nuove creazioni?

Le mie cocktail list sono sempre molto concettuali e tecnicamente studiate. Ogni menu nasce per raccontare qualcosa del luogo in cui nasce: The Court, ad esempio, ha raccontato Roma attraverso le sue fontane, ispirandosi all’idea che solo queste meriterebbero un viaggio nella Capitale. A The Court, più che una semplice lista di drink, abbiamo creato un’esperienza vera e propria. Il menu è pensato come un percorso degustativo, un po’ come accade in un ristorante fine dining: si può seguire una degustazione guidata da noi oppure costruirne una alla carta. L’idea è che non si venga semplicemente a bere un cocktail, ma a vivere un’esperienza. Forse è per questo che possiamo definire The Court uno dei pochi bar che porta il concetto di fine dining nel mondo della mixology

Invece per il nuovo bar che stiamo per aprire a Firenze (e sul quale non posso ancora dirvi troppo) la carta di Firenze a cuistiamo lavorando si basa su un’idea completamente diversa: non la Firenze classica e monumentale, ma quella nascosta, fatta di passaggi segreti, misteri, amori dimenticati e oggetti simbolici. Un lato della città meno esplorato, che vogliamo tradurre in un’esperienza sensoriale.

Non ho un singolo drink che mi rappresenta: ogni carta è strutturata con profili gustativi diversi per creare un percorso completo – dai cocktail bitter a quelli dolci, dai freschi ai martini. Lavoriamo con tecniche avanzate come centrifughe, rotovapor, sous vide, infusori rapidi: strumenti che ci permettono di estrarre davvero l’anima di ogni ingrediente. Per me è fondamentale che il racconto che accompagna un drink trovi poi conferma al palato.

Di: Indira Fassioni

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