L'attore, grande protagonista del cinema di genere italiano tra gli anni 70 e 80, viene celebrato al Festival del cinema di Porretta Terme. Tgcom24 lo ha intervistato
di Massimo Longoni© IPA
Tra i protagonisti più attesi della 24esima edizione del Festival del Cinema di Porretta Terme, che si tiene dal 6 al 13 dicembre, c'è l'attore italo-francese Luc Merenda. Volto simbolo del cinema di genere italiano degli anni 70 e 80, in particolare con numerosi film poliziotteschi, Merenda sarà celebrato il 9 dicembre con la proiezione del documentario "Pretendo l'inferno", realizzato da Eugenio Ercolani e che lo vede protagonista. "Il titolo è mio - sottolinea a Tgcom24 -. Dico che tutto quello che gira attorno al paradiso mi sembra talmente arrangiato in una salsa che funziona da duemila anni che poi quando vedo tutti quelli che pregano per andarci penso che non voglio essere con loro. Preferisco l'inferno, dove secondo me ci saranno più cose divertenti e non gente bigotta e piccolo borghese. Non voglio ritrovarmi con tutti quelli che mi hanno rotto le scatole sulla terra. Voglio tutti diversi, di tutti i colori, neri, gialli, verde, rosa, tutti quelli che non sono stati visti bene sulla terra: voglio essere con loro".
Da fotomodello ad attore specializzato nel poliziottesco, un genere che negli anni 70 in Italia ha avuto grande fortuna. Per Luc Merenda, francese di origini italiane, venne ritagliato il ruolo del poliziotto affascinante e inflessibile con i malviventi. Un ruolo in cui si calò con tale successo da diventare una gabbia dalla quale sarebbe uscito solo una volta che il genere sarebbe passato di moda.
Nel corso della sua carriera si è sentito spesso controcorrente?
Io sono stato educato da genitori stupendi, perciò prima veniva il rispetto per gli altri e per poter rispettare gli altri bisogna prima rispettare noi stessi. Nel mondo di oggi avere questa educazione è un handicap. Non ho mai accettato un millimetro di compromessi per fare un film. Devo dire che ne ho persi abbastanza, però significa che non erano fatti per me o che io non ero fatto per loro: non potrei mai fare un film con un compromesso perché non sarei capace di recitare.
Questo atteggiamento rigoroso le ha fatto perdere occasioni importanti? Ha qualche rimpianto?
No. Certo, ci sono registi con cui mi sarebbe piaciuto molto lavorare, ma è la vita. Penso che l'unico Paese al mondo che poteva lasciarmi esprimere un minimo era l'Italia. Perché il poco che ho fatto l'ho fatto tutto regolarmente, in modo pulito. Probabilmente se io fossi stato più aperto avrei fatto il doppio dei film però, visto che non ero disposto a cambiare, va comunque benissimo.
Nonostante questo la sua filmografia è molto nutrita, dalle tante pellicole del genere poliziottesco negli anni 70 alle commedie popolari.
La commedia è venuta dopo, quando ho avuto la fortuna di incontrare Paolo Villaggio con cui ho fatto "SuperFantozzi", diretto da Neri Parenti, e "I pompieri 2" di Giorgio Capitani. Grazie a loro ho fatto delle cose che volevo. Io volevo fare commedia. I datori di lavori pensavano che non avessi la faccia di quello che può fare commedia. Però se tu vedi l'America negli anni 50 e 60 c'erano attori come Clark Gable, Gary Cooper o Gary Grant. Tutti questi facevano tranquillamente la commedia. Capitani, Parenti e anche Villaggio mi hanno accettato per quello che ero, per quello che volevo fare.
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Dopo "Superfantozzi" e "Missione Eroica - i pompieri 2" ha recitato in "O' re" di Luigi Magni e poi si è distaccato dal cinema per molti anni. Perché poi è stata una sua scelta o non sono arrivate più cose che le interessavano?
Sono partito per la Francia dove purtroppo il primo film che mi hanno proposto era un film di polizia. Mi sono detto "ma io faccio tutto per uscirne e mi ritrovo ancora lì". Ero bloccato fra quelli che non volevo più fare e quello che avrei avuto voglia di fare. E io ringrazio le tre persone citate perché mi hanno permesso di esprimermi. Allora certo che avrei voluto delle parti magari più importanti. In "O' re" di Luigi Magni c'erano Giannini e la Muti e facevo un generale spagnolo. Però ho fatto delle cose che non bastavano.
Come mai il poliziottesco era diventato una gabbia?
Perché quando diventi un prodotto che funziona, loro telefonano alla distribuzione, fanno il tuo nome, poi prendono i soldi e fanno il film. Quando uno di questi protagonisti se ne va bisogna che se ne inventano un altro. Certo dopo i film che ho rifiutato Merli è uscito fuori. Avrei potuto proseguire a fare 40 film di polizia, ma facendo questo mestiere una volta voglio essere poliziotto, un'altra volta un gangster, un'altra volta un seduttore, cioè voglio essere una fetta del mondo. Non sempre la stessa. Altrimenti sarei entrato nella polizia per occuparmi di droga e di maltrattamenti alle donne. E mi avrebbero ammazzato subito. Perché se uno vuole fare le cose pulite lo ammazzano subito.
Tra i tanti film poliziotteschi che ha fatto ce n'è qualcuno a cui è più legato?
No, fai bene di sollevare i problemi. "La polizia accusa: il servizio segreto uccide", di Sergio Martino mi piace molto, così come "Milano trema: la polizia vuole giustizia. E poi "Il poliziotto è marcio" di Ferdinando Leo, e sempre suo "La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori". Leo è stato un grande personaggio, bello dentro e fuori, poeta, scrittore, regista... incredibile. Una generosità e un cuore, come solo la gente del Sud sa avere. Comunque questi film mi sono piaciuti, peccato che quando hanno iniziato ad avere successo tutti volevano andare sulla scia, ma erano dei commissari banali, cose scritte male.
E oggi?
Mi sono sempre detto che sarei tornato in Italia per fare un documentario su questi anni stupendi, difficili, atroci, ingiusti e dopodiché avrei smesso di girare. Invece ho ripreso a fare pochissime cose. Alla fine sono tornato attraverso i cinefili e tutte queste celebrazioni, tanto che mi sembra di avere più successo di allora.