ELETTRONICA E PUNK

Bloody Beetroots, la dance incontra il punk"Non credo ai generi, esiste solo la musica"

Nuovo album per (l'italianissimo) re della dance internazionale. "La ribellione oggi è prendere il meglio del sistema e usarlo per i propri fini"

11 Ott 2013 - 09:33
 © Ufficio stampa

© Ufficio stampa

Esce in questi giorni "Hide", il nuovo album di Bloody Beetroots, incarnazione di Sir Bob Cornelius Rifo, il produttore italiano che ha sfondato sul mercato internazionale mettendo insieme la dance ad atmosfere e tematiche punk. "Non c'è contraddizione - dice a Tgcom24 - l'anarchia è libertà di espressione". Nell'album collaborazioni prestigiose con Paul McCartney, l'ex Motley Crue Tommy Lee e Peter Frampton.

Dalla produzione "one-man studio" al tour mondiale con uno show completamente live insieme alla "Bloody Beetroots Death Crew 77" e ai suoi DJ show come "The Bloody Beetroots DJ Set", Sir Bob Cornelius Rifo è a tutti gli effetti un pioniere che ha reinventato il panorama della musica elettronica. Con "The Church Of Noise" ha anche creato una community online dove si coniugano "dance music e ribellione".

Dance, elettronica e punk. Sembrerebbero termini in contraddizione, ma non per te...

Mi viene molto naturale fare quello che faccio, perché da quando sono nato sono sempre stato attorniato da musica, con molte influenze diverse. Per questo non credo nei generi musicali, ma solo nella musica. E un album come "Hide" mi rappresenta molto. Per me l'anarchia è libertà di espressione e credo che usare la musica elettronica sia la giusta colla per mettere insieme tutti i diversi elementi, perché è molto contemporanea.

La dance offre più libertà di altri generi musicali?
Se la sai utilizzare può dare delle grandi soddisfazioni espressive. Ti permette di manipolare il layer musicale in molti modi diversi e se li sai addizionare e, soprattutto, esprimere, il risultato è stupefacente.

Si spiega in questo modo il tuo successo internazionale?
Quello dipende da come comunichi le cose al resto del mondo. O di come vuoi informare te stesso rispetto a quello che c'è là fuori. Spesso alcune persone rimangono bloccate nel loro territorio perché non si mettono in discussione o ignorano che esista un altro tipo di comunicazione. Io ormai sono fuoridall'Italia da sette anni e ancora sto imparando a comunicare. Più riesco a farlo e più mi riempio di gioia e passione e questo scaturisce nella creazione di nuove canzoni. È sempre una questione di espressione e comunicazione, e più lo fai in maniera pura e più riesci a raggiungere tanta gente.

Però non è soltanto una questione di successo di pubblico ma anche di stima da parte di altri artisti. Perché Paul McCartney collabora con te e non con un altro big italiano magari più affine a lui stilisticamente?
Il featuring con Paul McCartney è un po' il tema dell'album. Perché campionare la fonte quando puoi andare direttamente a lei, a quella che è la tua radice? Perché non chiedere? Io ho chiesto e, fortunatamente, mi è stato dato. Io voglio sempre incontrare gli artisti con i quali collaboro. Non so cosa abbia colpito Paul: forse la mia passione, forse quell'accordo che ho scritto, forse questa mia funzione di testimone tra passato e presente per creare la musica del futuro. Lui come Peter Frampton e altri, si sono sicuramente fatti coinvolgere da questa idea di ridiscutere tutto quanto, affrontare la musica con regole diverse.

Qual era il tuo obiettivo con "Hide"?
Il tema dell'album era andare alla fonte e citarla. Sentivo il bisogno di parlare di musica in un periodo storico in cui si parla di tutt'altro. Ci sono un sacco di informazioni disconnesse, di disinformazione che non ci permette di capire esattamente cosa fosse la musica del passato. E non vorrei che questa cosa fosse dimenticata. Il risultato La risultanza è stato questo mondo privo di generi musicali, che poi è il mondo di Bloody Beetroots.

E andando, come dici tu, alle fonti, incontrando questi artisti, hai trovato quello che cercavi o hai avuto anche sorprese?
Ho imparato tantissimo da questi personaggi. Intanto l'umiltà, il fatto di non sentirsi mai arrivati e di rimettersi sempre in gioco. Poi ho imparato a usare i banchi analogici, registrare strumenti che mai avrei pensato di utilizzare. Mi sono trovato davanti a orchestre di 25 elementi. Vedere che la tua musica prende un'altra dimensione, lo fai con gli strumenti veri e poi fai il crossover. È stato magico imparare da loro l'arte di creare il vero crossover. Hanno fatto crescere lo spessore della mia anima.

Perché ti presenti mascherato?
La maschera è un ottimo catalizzatore. Io dico sempre "let the music speak", perché è la musica che deve parlare, non il personaggio. Qualsiasi persona può essere me stesso lì sul palco. La gente si riconosce parte di un progetto, di un qualcosa che è Bloody Beetroots. La musica è la grande sfera di luce del progetto e la maschera ne è il catalizzatore.

Hai tatuato sul petto "1977", anno in cui sei nato ma anche anno cardine per il movimento punk. Cosa significa per te oggi essere punk?
Quel termine nel corso degli anni è stato bistrattato o usato come scusa per esprimere certe cose. Il punk nel 1977 è morto, forse un anno dopo se vogliamo allargarci. Io oggi identifico il punk come un'estrema conoscenza del sistema. Non è più questione di combattere il sistema ma di come prenderne il meglio per trasformarlo in qualcosa di utile. Alle generazioni, al dialogo, alla comunicazione. Il ribelle di adesso è una persona che studia molto e che vuole interagire con il sistema. Non c'è più il virus che arriva e distrugge, perché dopo la distruzione, se non hai la capacità di ricostruire, non c'è nulla. Non tutto fa schifo, ci sono anche delle cose meravigliose. E allora perché non trovarle e argomentarle per i propri fini?

Commenti (0)

Disclaimer
Inizia la discussione
0/300 caratteri