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Agrupación Señor Serrano, critica e ironia in "Kingdom": il capitalismo è uno show

Il nuovo spettacolo della compagnia catalana protagonista dal 22 al 24 maggio nella rassegna FOG del Triennale Teatro dellʼArte di Milano

Considerati tra i nomi più interessanti ed esplosivi del panorama teatrale attuale, premiati nel 2015 col Leone d'Argento alla Biennale Teatro di Venezia, la compagnia catalana Agrupación Señor Serrano torna in scena in Italia.

Da mercoledì 22 a venerdì 24 maggio è ospite della rassegna FOG del Triennale Teatro dell'Arte di Milano dove proporrà il nuovo spettacolo "Kingdom". Dopo l'impegno politico con lavori come “A House in Asia” e “Birdie”, ora lo sguardo critico e ironico punta sul capitalismo. La compagnia lavora su una creazione intermediale di cui si mostrano in scena i processi sottesi. Proprio sul palco prende forma il suo teatro, che racconta microuniversi anticonformisti, in un vortice di video, performance live, modellini in scala, oggetti e musica dal vivo. A Tgcom24, uno dei membri, Pau Palacios, ha raccontato cosa lega banane, King Kong, machismo e consumismo, il cocktail alla base dello spettacolo.

Agrupación Señor Serrano, le immagini di "Kingdom"

Chi è il Señor Serrano e come nasce la vostra compagnia?
Il Senor Serrano è nato nel 2006 da un'iniziativa di Alex Serrano. In due ci siamo aggiunti già nel 2007. Lo scopo della compagnia era creare spettacoli scenici partendo da un punto di vista contemporaneo. Sempre sotto la direzione di Alex siamo diventati un collettivo dove le funzioni e le mansioni di ognuno sono molto ampie e partecipiamo tutti nella gestione e creazione degli spettacoli.

Il cinema è un elemento fondamentale della vostra creazione e messa in scena. Cosa rappresenta per voi e quali sono i vostri riferimenti?
Abbiamo avuto due periodi diversi a livello di creazione: fino al 2011 abbiamo fatto un tipo di spettacolo dove c'era sempre come elemento principale la performance. Quindi avevamo performer, ballerini e diversi elementi visivi. Il video era un elemento in più. A partire dal 2010 per diverse ragioni, come il bisogno di internazionalizzare il nostro lavoro, ci siamo concentrati molto su questo linguaggio. Ci siamo posti la questione di come portare sul palco i princìpi di questo tipo di linguaggio. Il cinema è uno dei nostri riferimenti, è molto importante, insieme alla video l'arte e ai videogiochi. Ci piace mettere in ogni spettacolo dei riferimenti cinematografici molto specifici che vogliono giocare con la complicità della spettatore. 

Il teatro classico è una rappresentazione, per voi è un trucco, un gioco. Qual è la dinamica del vostro lavoro e quali sono gli elementi principali?
Il teatro per noi è una costruzione. Oggi lo spettatore non può essere tenuto all'oscuro di questa costruzione. Per il tipo di teatro che ci piace, io non posso più credere a quello che sto guardando sul palco. Ad esempio, quello che mi viene mostrato è veramente la Verona del XIII secolo dove c'è una ragazzina innamorata di un ragazzetto? Io ormai non posso più credere a questa sospensione della verità. Non regge più.  Quello che deve fare il teatro è mostrare come si fa questa costruzione: la struttura di quello che viene raccontato e allo stesso livello di quello che si racconta. Quindi nel nostro modo di lavorare entra in gioco tutto quello che ci permette di far vedere allo spettatore come si sta costruendo la narrazione. Noi offriamo un punto di vista e lo dotiamo di una complessità e di una ricchezza di strati.

Qual è il rapporto con il pubblico?
A noi piace tanto emozionare. Ma questa emozione cerchiamo di crearla attraverso la conoscenza, la comprensione e il ragionamento. Proponiamo allo spettatore una moltitudine di riferimenti e lui deve aggiungere una sua interpretazione. 

A Milano arriva il vostro nuovo spettacolo "Kingdom". In cosa prosegue la vostra produzione e in cosa si discosta? Qual è il bersaglio contro cui vi rivolgete?
Con il nostro spettacolo precedente abbiamo toccato l'argomento delle migrazioni. Era uno spettacolo molto dolce, intimo e che richiedeva una certa serietà. In seguito volevamo imprimere un cambiamento netto, facendo qualcosa di estrinseco invece. E abbiamo deciso di raccontare come il consumismo e il capitalismo agiscono sulla coscienza delle persone e sui loro desideri. Quindi siamo andati a cercare due totem: uno è la banana e l'altro King Kong. La banana è un esempio perfetto. Era un frutto che non esisteva in Europa e negli Stati Uniti, non c'era da nessuna parte fino al 1870, cioè fino a quando qualcuno ha deciso che doveva essere esportato nel mondo. E in pochissimo tempo si è creato un'industria, una coltivazione intensiva e una logistica complicatissima per portarla ovunque. Era qualcosa che nessuno stava chiedendo. Poi abbiamo preso King Kong, perché ci interessava molto questa concetto in cui lui nella sua isola può agire e fare tutto quello che vuole. L'isola è il suo "Kingdom". Come il capitalismo fa del mondo il suo regno. Giocando su questi due poli abbiamo fatto un ritratto del capitalismo come un sistema che puntando sul desiderio, usa e sfrutta il mondo a suo piacimento senza pensare alle conseguenze. E lo fa attraverso un punto di vista molto maschile e macho. Negli spettacoli precedenti eravamo tre persone sul palco che aveano il compito di gestire gli oggetti e le videocamere. Invece in questo spettacolo ci sono veri performer che recitano, ballano, suonano, cantano. Diventa proprio uno show, come il capitalismo. Abbiamo voluto riprodurre questa logica per criticarla.