Due mondi diversissimi, dalla Milano "col coer in màn" agli eccessi della romanità. Ma il dolore è unico
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In parecchi hanno accarezzato l'impossibile e lo hanno scritto sui social: "Che bello sarebbe se a Pasqua risorgessero entrambi!". Jannacci e Califano, Enzo e Franco, così lontani ma anche così vicini.
Non sappiamo se in vita si siano mai incrociati, ma artisticamente, almeno in superficie, avevano ben poco in comune. Jannacci è la Milano degli ultimi e del "coer in màn", della nebbia e delle fabbriche, è la sottile ironia beffarda, l'allegria venata di malinconia, il ghigno e la smorfia. Califano è la romanità degli eccessi, la canzone popolare opposta a quella d'autore, è l'uomo che ha avuto più di mille donne, la sfrontatezza e la spericolatezza, la persona che si nasconde dietro al personaggio.
Due mondi lontani e inconciliabili, ma solo a prima vista. In molti, nel dolore, si sono ritrovati, magari per motivi diversi, ad amarli entrambi. E' la poesia che li ha unito, quella delle "scarp de tenis" e del "tutto il resto è noia", la poesia che come sua massima espressione diventa popolare perché le loro sono diventate canzoni di tutti, "del popolo", si potrebbe appunto dire usando un'espressione d'altri tempi.
Due giganti, nei loro mondi, Enzo e il Califfo. Due giganti e, perché no, due acuti osservatori "sociali". Provate a leggere con attenzione i testi delle loro canzoni: nel primo dietro l'apparente disimpegnata canzonetta alla "Vengo anch'io" si nasconde la satira sociale, nell'altro le piccole-grandi tragedie dei sentimenti assumono quasi una dimensione esistenziale e universale.
Califano e Jannacci due facce di una stessa medaglia. Peccato che sia stata la morte a farceli scoprire meno lontani di quanto pensassimo.