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Coronavirus, da Valencia a Tgcom24: "Noi italiani derisi, qui sono arrivati in ritardo con le chiusure"

"Mi meravigliavo degli aerei che ancora il 4 marzo atterravano da Orio con centinaia di connazionali, giunti per il Festival delle Fallas, interrotto solo allʼultimo", commenta Vittoria, da anni residente in Spagna

Il coronavirus ha fermato anche le Fallas di Valencia, festival rimandato a luglio

"Non so se c'entra la partita con l'Atalanta, non so se c'entrano il corteo dell'8 marzo o le Fallas; so che anche qui siamo arrivati in ritardo ad affrontare il coronavirus". Da dieci giorni in quarantena con la famiglia a Valencia, su disposizioni del governo Sanchez, Vittoria, trentenne italiana, esprime a Tgcom24 tutto il suo sgomento. "Per business hanno interrotto il più tardi possibile i tradizionali festeggiamenti di San Giuseppe; ricordo che noi italiani eravamo derisi per le nostre preoccupazioni, informati com'eravamo di quello che avveniva nel nostro Paese", racconta. Mentre il rimpallo di responsabilità per la pandemia di Bergamo continua tra Valencia (e il suo club calcistico) e gli esperti italiani (anche l'Iss e da ultimo il commissario Borrelli valutano come ipotesi che tifosi spagnoli e atalantini a San Siro quel 19 febbraio per il match di Champions abbiano potuto innescare il contagio zero nella Bergamasca).

Strade vuote e posti di blocco anche lì a Valencia: che aria si respira da quando è iniziato il lockdown spagnolo?
"Anch'io sto chiusa in casa da dieci giorni; cerco di non guardare troppe notizie per non angosciarmi. Vivo su una strada di passaggio, con i negozi, gente ce n'è ancora in giro. Mi arrivano foto della piazza principale che è vuota ed è inusuale, ma non mi risulta il coprifuoco come in Italia. Ma anche qui si respira un'aria di incertezza. Tutti i giorni alle 20 c'è l'applauso comunitario dalle finestre, dal primo giorno. Emotivamente molto coinvolgente".

 

Mentre a Valencia e in tutta la Spagna la vita continuava normalmente, le notizie che riceveva dall'Italia erano di piena emergenza: che idea si faceva?
"Qui in Spagna il problema coronavirus è stato sottovalutato, ma seguivo la questione in Italia, meravigliandomi degli aerei carichi di turisti che arrivavano da Orio e da Roma a Valencia per le Fallas. Com'è possibile?, mi chiedevo sapendo dell'emergenza in Italia. Proprio le Fallas, la festa più grande e attesa di Valencia, era iniziata il primo marzo e nessuno intendeva fermarla anche perché in un mese di festival girano 4 milioni di persone e un grande business. Poi, alla fine, il 13 marzo, per decisione del governo centrale, anche le Fallas si sono fermate; tutto rimandato a luglio e nella piazza principale è rimasto da bruciare il busto dell'opera-simbolo, la Meditatrice, alla quale hanno messo una mascherina. Ciò, mentre dall'Italia le notizie ci angosciavano: qui la comunità italiana è molto numerosa e tutti si chiedevano se andare a lavoro normalmente. Io alla fine ho deciso di mettermi in telelavoro da subito, prima del discorso al Paese del presidente Sanchez".

 

Una situazione surreale?

"All'inizio noi italiani qui venivano derisi, perché eravamo molto in allarme; eravamo preoccupati; eravamo un passo avanti in questo senso, ma non venivano presi sul serio. Si poteva forse evitare il disagio che verrà con un po' più di intelligenza e serietà. Noi le Fallas quest'anno non le abbiamo vissute, proprio per questo motivo. C'era gente di tutto il mondo, turisti, troppi assembramenti nella piazza principale e li ritenevo un pericolo. Facevo giri all'aria aperta ma con le dovute distanze. Quando l'Oms ha sancito la pandemia, il governo spagnolo si è svegliato e ha deciso di chiudere tutto. Il giorno prima non c'era da preoccuparsi, il giorno dopo tutti a casa".

 

 

Come vive la quarantena: routine stravolta, ansie?

"Non ci vediamo più neanche con i vicini. Alla fine si esce solo per buttare la spazzatura. E pensare che fino a due giorni prima lo stesso governo assicurava che non ci fosse bisogno di bloccare le Fallas. Abbiamo vissuto i primi giorni con l'incubo di esserci ammalati. E ora sono soprattutto preoccupata anche in ambito lavorativo, i prossimi mesi saranno molto duri. Provo preoccupazione mista a rabbia per la disorganizzazione dei governi dei vari Paesi, con ognuno che agisce in maniera diversa senza coordinamento europeo. Il contagio era prevedibile. Certo, ora la routine è stravolta; cerco di non far annoiare il mio bambino e di stare allegri; ci colleghiamo tutto il giorno con i famigliari in Italia".

 

Sulla stampa locale che notizie ha dell'emergenza sanitaria? Anche lì si ipotizza che il coronavirus sia arrivato prima di metà febbraio nella Regione Valenciana o è solo un'ipotesi che si segue in Italia e che vorrebbe spiegare la pandemia di Bergamo?

"Lunedì nella Comunitat Valenciana si erano registrati 25 decessi in più e 297 nuovi positivi in 24 ore, leggevo su Las Provincias, per un totale di 1.901 infetti e  94 vittime; ci sono anche 378 malati tra i sanitari. Situazione, dunque, in evoluzione, con altri 15 giorni di lockdown che ci aspettano. Per quanto riguarda la partita, sì, i contagi anche qui dicono siano potuti iniziare da lì: positivi di Valencia insieme a positivi di Bergamo a San Siro avrebbero dato vita a un contagio massivo, come riporta in questi giorni, tra gli altri, anche Mundo Deportivo. Ricordo della polemica per la gara di ritorno che si è giocata a porte chiuse, con i tifosi fuori dallo stadio tutti ammucchiati".

 

Il primo pensiero quando si tornerà alla normalità?
"La voglia più grande non è solo che passi tutto questo, e la vedo abbastanza lunga, ma è di tornare in Italia, riabbracciare i miei cari, stare un po' con loro e vivere con loro la normalità anche di una passeggiata, che ora sembra un evento storico".

 

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