La prima grande retrospettiva italiana dedicata a Arshile Gorky è a Cà Pesaro
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Uno dei più lirici e intensi protagonisti dell’Espressionismo Astratto americano
di Lorella Giudici© ufficio-stampa
Alla XXIV Biennale di Venezia del 1948, la prima del dopoguerra, il Padiglione degli Stati Uniti inaugurava un mese dopo la vernice ufficiale, dunque a luglio, proprio quando a Sherman, nel lontano Connecticut, Arshile Gorky, uno dei più lirici e intensi protagonisti dell’Espressionismo Astratto americano si toglieva la vita impiccandosi in un granaio pieno di casse per dipinti. Di questo lutto la stampa italiana non ne fa parola e della sua presenza alla Biennale - con due opere - si limita a registrarne solo il nome. Oggi, a ridosso dell’imminente apertura della 58° Biennale d’Arte - prevista per il prossimo 11 maggio -, il nome di Gorky non può più essere ignorato perché Cà Pesaro gli dedica la prima grande retrospettiva italiana.
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Nato nel 1904 in Armenia, a 15 anni Gorky si rifugia negli Stati Uniti insieme alla sorella per sfuggire al genocidio. Lì ha costruito la propria vita e la propria carriera di artista. Come compagni di strada ha Rothko, Pollock, de Kooning, ovvero il meglio dell’arte americana di quel tempo. Tutti loro mettono al centro della propria ricerca il colore, ma nel caso di Gorky è un colore alchemico, nostalgico. “La prima emozione che si riceve da una tela di Gorky” confessa Toti Scialoja, noto artista romano, “è quella di un colore tutto offerto, tutto affiorato. Colore non bello in modo francese, complementaristico o d’intonazione o cantante. Bello in modo antico, nel senso di un tono di Paolo Uccello o alla Bellini: colore di variazione o di ‘tono locale’ reso assoluto e melanconico al massimo, filtrato come se fosse acceso per una luce lontana, un colore veneziano ma senza veli, con un abbaglio compatto di papiers-collés confezionati con antichi paramenti e bandiere”.
E ancora “un colore che ha l’immobilità calda della lampa da vista dietro la mano che ripara. Caldi incredibili come di moschee al tramonto, distese di miele, muffe su antichi mantelli reali”. Dai primi lavori degli anni Venti, in cui il suo approccio alla pittura è fortemente connotato dal rapporto con le composizioni di Cézanne, fino al contatto con i surrealisti - tra cui André Breton, Wifredo Lam, Max Ernst e Roberto Matta - per arrivare poi all’ultima stagione della sua ricerca, Arshile Gorky ha saputo creare un personale vocabolario di forme fantastiche, evocative di ricordi d’infanzia, della sua profonda affinità con la natura e delle complessità e delle contraddizioni che sentiva parte della sua stessa esistenza.
Visitabile dal 9 maggio al 22 settembre 2019, la mostra è curata da Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia e da Edith Devaney, curatrice alla Royal Academy of Arts di Londra.