Sei anni di solitudine

Ingrid Betancourt: la mia prigionia

20 Feb 2012 - 18:13

Ingrid Betancourt racconta i suoi sei anni di prigionia nel libro "Non c'è silenzio che non abbia fine". Confessa di essere riuscita a sopravvivere a quel momento difficile grazie a una profonda fede e a una radiolina che le permetteva di ascoltare le voci dei familiari. Nonostante la sua forza d'animo dice di avere ancora bisogno della psicoterapia. Intervistata da Tgcom dice: "A certi uomini basta un'oncia di potere per pensarsi onnipotenti".

E' più alta di quello che ti aspetti, Ingrid Betancourt. Al collo porta una collana di perle, il corpo minuto è ricoperto da un poncho rosso per ripararsi dal freddo di Milano. Veste una giacca nera sopra la camicia bianca.
Fa un effetto straniante vederla in abiti borghesi con la valigia e le borse degli acquisti, si fatica a immaginarla una normale donna di 49 anni che vive nella società parigina, occupandosi della sua fondazione: per tutti è rimasta la candidata alla presidenza della Colombia tenuta sotto sequestro dalle Farc, le forze armate rivoluzionarie, per sei lunghi anni, nella selva, costretta a marce forzate nel fango, legata con una catena al collo, tra insetti velenosi e animali feroci che, oltre ai carcerieri, alle malattie, ne hanno messo in serio pericolo la vita. Una lunga prigionia che adesso racconta ne  “Non c'è silenzio che non abbia fine” già in testa alle classifiche americane.
"Ho tentavo di scappare cinque volte, ma mi hanno sempre catturato, una volta perchè Clara Rojas, la mia compagna, si spaventò per un nido di calabroni, urlando a squarciagola, un'altra perché ci trovammo di fronte un muro invalicabile d'acqua –  dichiara la fondatrice del Partido Verde Oxígeno, che nella campagna elettorale distribuiva preservatrivi per spingere la gente a prevenire la malattia e la Colombia dalla corruzione -.  Ma non mi sono e mai mi sarei arresa. Ogni volta che sono scappata ho imparato qualcosa di quei luoghi, così, appena mi riacciuffavano, pensavo: la prossima volta non commetterò quell’errore. Tigri e serpenti non mi spaventavano più, ma certo i fiumi erano una barriera invalicabile".

Il titolo del libro è tratto da un verso di Pablo Neruda...
"Quando stavo male, mi tornavano alla mente i versi del poeta cileno, mio padre me li recitava sempre da bambina, sono un mantra,  la vittoria della vita sulla morte, ho sempre pensato che sarei riuscita a tornare alla vita, non ho mai perso la speranza, volevo riabbracciare i miei figli. Mi ha aiutato moltissimo la fede religiosa, anche se ho vacillato. Mi chiedevo come Dio potesse permettere quello che stavo passando. Però la fede mi ha dato forza, quando accade un’ingiustizia non è colpa di Dio, spesso ci dà alcuni segnali, bisogna passare attraverso la sofferenza per maturare. Ogni mattina vado a messa. A Milano sono andato in S. Marco".

Come ha fatto a sopravvivere 2321 giorni nella giungla? Lei non era una guerrigliera abituata a vivere in quella condizioni. E' cresciuta a Parigi, nelle migliori scuole, ha frequentato ambienti diplomatici con suo padre e poi col suo primo marito Fabrice Delloye...
"Alcuni miei compagni di prigionia erano nati nella selva, conoscevano i serpenti, gli animali velenosi, si erano immersi dentro fiumi e fango fino al collo, ma soffrivano come me, quindi non era una questione di censo o classe sociale di provenienza. Il problema era abituarsi a essere privi della libertà. E io non ci sono mai riuscita: questo paradossalmente mi ha salvato. Per questo quando mi vollero sequestrare la radiolina, che era l'unico mezzo per sapere di cosa stesse accadendo del mondo e di sentire notizie dei nostri familiari, l'ho nascosta, rischiando la vita".

La radio valeva come la salute, era il bene più prezioso...
"La radio era tutto, sentivo la voce calda di mia madre che mi diceva di tenere duro, darmi notizie sui miei figli. Ma, mentre ero legata a un albero con una catena che mi stringeva il collo, ascoltavo anche giornalisti e politici dire che mi ero innamorata di un guerrigliero, avevo fatto un figlio, ero diventata anche io una delle Farc. La radio era motivo di speranza ma anche di impotenza, certe volte l'avrei sbattuta contro un albero anche se poi, quando sentivo la voce di mio figlio, mi intenerivo".

Clara Rojas, sua candidata alla vicepresidenza, ebbe rapporti con un carceriere, tanto da mettere al mondo un bimbo, strappatole e poi restituitole. A lei è capitato di provare simpatia per Marc Goncalves, un contractor americano che poi in un libro l'ha definita egoista e dispotica... Era possibile innamorarsi in quella condizione di promiscuità?
"Con Marc ebbi un’amicizia amorosa. Nacque una intimità di sguardi e parole, ma sapevamo entrambi che sarebbe finita con la prigionia, che tornati alla vita reale le nostre strade, anche perché viviamo agli antipodi del mondo, non avrebbero potuto che separarsi. Certo, se lo rivedo, tra noi c'è empatia, quel che può avere scritto non mi tange più di tanto. Con Clara il rapporto non fu semplice: la convivenza forzata con chi non scegli, soprattutto in una condizione di sofferenza, è sempre complicata".


Ha avuto carcerieri brutali, ma alcuni hanno mostrato anche affetto, o quanto meno interesse nei suoi confronti, chiedendole consigli sui problemi di cuore, ammettendo di soffrire, come lei, la lontananza da casa...
"Era la cosa più difficile avere confidenza con persone mie nemiche. Dividevamo il cibo, le lunghe marce, l’umidità, il caldo, mi raccontavano dei loro amori con compagni di guerriglia poi destinati ad altre missioni, mi chiedevano consigli, ma erano pur sempre i miei aguzzini e non posso dimenticare che mi hanno privato della libertà per sei lunghissimi anni. Mi hanno anche picchiata".


 

Ci sono stati momenti di distensione, magari anche felici, che ricorda con simpatia, sempre che sia possibile?
"Ho imparato a intrecciare cinture per i pantaloni, impartivo lezioni di inglese, ricamavo talvolta, facevo ginnastica quando eravamo fermi a lungo in un posto. Il problema maggiore, infatti, era far trascorrere il tempo in quella cappa di umidità che è la giungla. Che gioia quando scoprii che altri prigionieri, membri dell’esercito regolare, avevano alcuni libri. Mi mesi in lista per avere Harry Potter, oltre alla Festa del Caprone di Vargas Llosa. Ho anche ammaestrato una scimmietta e altri animali. Ma non credo che si possa usare il termine gioia, erano soltanto piccoli éscamotage per non pensare".
La Colombia ha una natura meravigliosa, come descrive Gabriel Garcia Marquez nei suoi romanzi. A volte, nelle lunghe marce di trasferimento,  le è capitato di restare incantata dalla bellezza del paesaggio, oppure era concentrata nello sforzo per guadare i fiumi, non farsi pungere dagli insetti velenosi, evitare anaconde e tigri?
"Quando ero speranzosa, la bellezza della foresta mi galvanizzava, metteva le ali al mio spirito. Se ero giù di morale, mi asfissiava. Mi sembrava di essere dentro una ragnatela: quelle liane, la vegetazione impenetrabile, un labirinto di foglie e di pensieri cupi".

Torniamo al giorno della liberazione, l’1 luglio del 2008. Si dice che la  Casa Bianca avrebbe pagato 20 milioni per la liberazione, insieme a lei, di tre contractor statunitensi...
"Menzogne. Passo la vita rettificando le stupidaggini. Mi sono chiesta milioni di volte durante la prigionia se fui sciocca o troppo orgogliosa a recarmi a San Vicente del Caguan per un comizio durante la campagna elettorale del 2002 per le presidenziali. Ma era mio dovere, perché il sindaco di quella città mi aveva supplicato di andare, perché la gente aveva paura e la mia presenza li avrebbe tranquillizzati. Avevo 20 guardaspalla, la zona era sicura, stava arrivando il presidente Pastrana. Mi ritirarono parte della scorta all'ultimo istante e negarono l'elicottero, ma non avrei potuto rinunciare. Partimmo con le jeep, ci superò un convoglio della Croce Rossa, cademmo in una imboscata, non fummo sprovveduti, abbiamo dovuto andare a S. Vicente per un dovere morale e politico".
Quando l’esercito mise in atto l’operazione Jacque per il suo salvataggio, inserendosi nel mezzo dei collegamenti tra i vari gradi di comando delle Farc, all’inizio non se ne rese quasi conto, non volevate salire sull'elicottero, pensavate addirittura di ribellarvi...
"Sembravano guerriglieri come gli altri che volevano trasferirci in un altro campo, all’inizio non ce ne rendemmo conto, un altro trasferimento avrebbe voluto dire ulteriori sacrifici, il rischio di cadere in mano a a cacerceri anche più spietati. Solo sull’elicottero ci svelarono che erano membri dell’esercito e che da mesi preparavano quell’operazione. Ci credetti solo quando mi dissero che non dovevo più domandare il permesso per chiedere una cosa".
Che cosa ha provato quando ha riabbracciato i suoi figli Melanie e Lorenzo, che avevano rispettivamente 17 e 13 anni quando fu sequestrata?
"Fu un momento magico. Sapevo che il periodo difficile sarebbe venuto subito dopo, perché li avevo lasciati bambini e li ritrovavo grandi. Era fondamentale dimenticarsi il periodo ludico, accettare che i nostri reciproci bisogni nella relazione erano cambiati, e che eravamo vittime involontarie di un dolore in forma differente. A Melanie era mancata una guida che le dicesse come comportarsi in quel dato momento, e per anni aveva lottato con la sua memoria per ricordare cosa io potessi averle detto in questa o quell’altra situazione. La ritrovai donna. Mi ha portato a comperare vestiti, scarpe, biancheria. Prima mi aveva dato i suoi, abbiamo la stessa taglia. Lorenzo aveva provato un dolore fisico per la mia assenza. Ci siamo chiusi in camera a parlare, e ci siamo rimasti per ore, giorni, conversando, era già un ometto…"
Sembra in forma, serena, in pace col mondo. É davvero così? Si può davvero lasciarsi alle spalle una prigionia così lunga oppure lascia immancabilmente segni indelebili?
 "Sto bene, adesso, grazie. Seguo sempre una terapia psicologica, la ritengo utilissima tanto che non ne farei mai a meno, anche se so di avere superato le paure. Confesso a volte di svegliarmi nel cuore della notte,  in preda alla sensazione di essere ancora imprigionata nella giungla. Ma poi passa. Una volta, mentre ero in volo, seduta accanto a un militare, un uomo dall’apparenza e i modi sgradevoli, che mi ricordava i comandanti delle Farc, mi capitò ancora di domandare il permesso per spostarmi in un altro sedile:  nella mia mente non si era ancora estirpata del tutto quella condizione di sottomissione. Alla persona umana a volte basta un’oncia di potere per abusare di un’altra, compiendo gesti che hanno conseguenze enormi. Ma io adesso mi sento più forte. Ho la mia fondazione, i miei figli, quell’angelo di mia madre Yolanda".
Si ricandiderà in futuro per le elezioni o ha paura di essere di nuovo sequestrata?
"Per ora dico no. La politica è sporca, brutta. Però nella vita è sempre meglio non dire mai. La Colombia adesso ha un buon presidente, Juan Manuel Santos, che era ministro della difesa quando io fui liberata, la zona in mano alle Farc si è ristretta, la gente vive meglio. E questo vale anche per il Venezuela dove Chavez, per quanto se ne dica, resta pur sempre un presidente eletto democraticamente".
Luca Bergamin

"Non c'è silenzio che non abbia fine"
di Ingrid Betancourt
 Rizzoli, pagg. 720, € 21

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