La band gallese è stata protagonista a Milano di un concerto sold out. Tgcom24 ha incontrato il leader Kelly Jones
di Massimo Longoni© ufficio-stampa
Sono stati tra i principali esponenti dell'ondata di Britpop di fine anni 90 e, a differenza di molte band a loro coeve, dopo vent'anni sono ancora qui. Gli Stereophonics hanno pubblicato a ottobre l'album "Scream Above The Sounds" e ora sono in tour. "Non abbiamo mai voluto essere 'una band degli anni 90' - dice Kelly Jones a Tgcom24 -, ma andare avanti e fare continuamente musica nuova restando fedeli a noi stessi".
L'occasione dell'incontro è stato il concerto sold out al Fabrique di Milano, unica tappa italiana del tour europeo del gruppo che sta portando in giro l'ultimo lavoro. Un album composto da undici "canzoni epiche" permeato di positività e messaggi di speranza. "Ogni canzone regala un senso di sollievo - spiega Jones, cantante e chitarrista della band -; anche quando c’è nostalgia, paura o ansia i pezzi offrono speranza e margine d’azione".
© ufficio-stampa
Questo è un lavoro che guarda al futuro riflettendo però sul vostro passato. Come vi muovete tra questi due poli?
Credo che quando scrivi le canzoni per un disco non analizzi molto quello che stai scrivendo. Nel processo creativo ti lasci semplicemente trasportare. Quello che a me preme di più è essere onesto con me stesso. Può capitare che in maniera inconscia escano riflessioni sul passato ma non è una cosa che riguarda tutto l’album, ma solo alcune canzoni, che comunque stavano bene insieme.
Avete festeggiato da poco i vent’anni di carriera. Come avete visto cambiare il mondo musicale e come vi siete adattati?
Molte cose vanno e vengono, mutano. La cosa fondamentale è che tu rimanga fedele a te stesso e possa trovare la tua strada. A volte puoi avere successo, a volte puoi averne meno, ma se sei centrato su quello che sei puoi andare avanti. Dagli anni 90 molte cose sono successe, moltissime ne sono cambiate, ma io non ho mai voluto essere “una band degli anni 90”, ma andare avanti e fare continuamente musica nuova.
In "Before Anyone Knew Our Name" rifletti sulla scomparsa di Stuart Cable, il vostro primo batterista, morto nel 2010. Come mai proprio ora?
Non saprei dirlo, non è stata una scelta deliberata. Semplicemente un giorno la canzone mi è venuta e l’ho registrata. In certe situazioni i pensieri e i sentimenti hanno bisogno di anni per fare ordine e poi all’improvviso ti appare tutto chiaro.
Quando preferisci comporre? Lo fai anche in tour o hai bisogno di tranquillità e concentrarti solo su quello?
No, non sono il tipo di compositore che ha bisogno di andare sulla cima di una montagna e isolarsi dal mondo per scrivere una canzone. Non spengo mai la mia ispirazione, un’idea può venirmi mentre mi trovo su un aereo o al supermercato a fare la spesa. Per fortuna oggigiorno c’è la tecnologia che ci viene incontro e quindi sul mio telefono c’è una quantità infinita di musica, che a volte è diventata una canzone, altre è rimasta lì.
Rispetto agli inizi di carriera hai cambiato il tuo modo di comporre?
No, a parte il fatto che negli ultimi tre album alcune canzoni sono nate al pianoforte, cosa che non faccio molto spesso. Per il resto ho sempre il mio metodo, che presuppone che mi metta a cercare idee con una chitarra acustica e che prima arrivi la melodia e poi ci costruisca sopra un testo, a meno che le liriche siano qualcosa di veramente forte.
In questi vent’anni avete cambiato alcune volte formazione. Cosa significa per te portare avanti un gruppo mutandone la composizione e lavorando con persone nuove?
C’è un nocciolo della band che suona insieme da moltissimi anni. Qualcuno poi si è innestato nel tempo. Cambiare l’alchimia del gruppo può essere anche una cosa positiva, un bello slancio di energia e idee nuove. La cosa fondamentale è trovare musicisti che siano appassionati di quello che fanno e che non si presentano a te attratti dal successo della band. Questa non è un progetto finanziario ma è qualcosa che riguarda come ti senti nei confronti della musica.