Anche gli artisti dovranno rispettare le nuove regole del Regno Unito per tour, concerti e promozioni munendosi del permesso di lavoro. Ora insorgono contro il governo di Boris Johnson per non aver raggiunto un accordo con la Ue
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Alcune fra le popstar più famose nel mondo come Thom Yorke dei Radiohead o Dua Lipa sono insorte contro il governo conservatore di Boris Johnson. Sostanzialmente la questione che assilla il mondo della musica a seguito della Brexit è che gli artisti non possono più muoversi tra il Regno Unito e l'Ue senza il visto per lunghi soggiorni. E così questa problematica metterebbe davvero a rischio la stagione dei concerti e dei tour, quando si potrà tornare a organizzarne.
Sotto accusa è finito l'esecutivo Tory, che secondo una fonte europea citata dall'Independent, sarebbe colpevole di aver rifiutato nei negoziati con Bruxelles un'intesa su questo punto per arrivare a una esenzione dell'obbligo di visto per un periodo di 90 giorni. Ma Downing Street rispedisce le accuse al mittente, puntando il dito contro l'Unione Europea.
Nello specifico Horace Trubridge, segretario generale dell'Unione dei musicisti britannici, ha detto che il rifiuto di Londra dell'offerta avanzata dall'Ue ha "quasi dell'incredibile". Dal canto suo, il governo del Regno Unito ha assicurato che durante i negoziati sulla Brexit ha presentato a Bruxelles proposte per raggiungere "un ambizioso accordo sugli spostamenti temporanei per i viaggiatori d'affari che avrebbe coperto i musicisti". Ma "l'Ue ha rifiutato", ha precisato un portavoce. In pratica, senza un visto speciale, i costi di organizzazione dei propri tour in Europa di artisti e band lieviterebbero notevolmente.
Intanto si mobilitano i musicisti. Yorke ha definito il governo Johnson "senza spina dorsale", mentre Tim Burgess, cantante dei Charlatans, ha accusato i leader politici di "trattare gli artisti con disprezzo". Altre star sono intervenute nella diatriba, da Laura Marling a Louis Tomlinson dei One Direction all'ex Boyzone Ronan Keating per esortare i fan a sostenere una campagna che chieda un "permesso di lavoro culturale gratuito", con una petizione online che ha raccolto finora quasi 250mila firme.
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