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Lacuna Coil, viaggio nel delirio di un mondo che è impazzito

La band milanese pubblica il nuovo album "Delirium", tra fascinazioni horror e richiami allʼattualità


Lacuna Coil, viaggio nel delirio di un mondo che è impazzito - foto 1
Ufficio stampa

I Lacuna Coil ci conducono nel loro sanatorio.

Si intitola "Delirium" il nuovo album della band milanese, in uscita il 27 maggio. Un lavoro a tema dove fiction e attualità si fondono. "Abbiamo immaginato le storie di chi era chiuso in sanatori oggi abbandonati, luoghi in cui si respirava un'atmosfera pesante - spiega Cristina Scabbia a Tgcom24 -. Ma ci hanno ispirato anche gli eventi e il caos del mondo di oggi, un vero 'delirium'".

Sono uno dei più fulgidi esempi di fuga di cervelli in campo musicale. Perché i milanesissimi Lacuna Coil se in Italia sono ancora "chiusi" nel recinto del metal, negli Stati Uniti sono diventati un fenomeno consolidato, al punto da passare quasi più tempo là, tra tour e festival, di quello che passano da noi. "Delirium" è un piccolo snodo nella loro carriera ormai più che ventennale: il bassista Marco "Maki" Coti-Zelati ha assunto il ruolo di produttore insieme ai suoi compagni, mentre nella line-up è entrato in pianta stabile il batterista americano Ryan Blake Folden. Un lavoro particolarmente duro, che sposta in alto l'asticella delle sonorità metal, dove le voci di Andrea Ferro e Cristina Scabbia fanno ora da bilanciamento melodico ora da catalizzatore di energia. Ma il punto centrale in "Delirium" sono i testi, con un concept ambientato in un sanatorio ideale dove si intrecciano le storie di immaginari pazienti e riferimenti alla follia che ha preso il mondo negli ultimi tempi. "L’ispirazione è partita da una serie di manicomi abbandonati che abbiamo visitato in passato - spiega Cristina -. Ce ne sono un po’ attorno a Milano e siamo sempre stati affascinanti da questo tipo di luoghi, che sollevano domande su quello che vi può essere accaduto all’interno".

L'idea del concept è quella da cui siete partiti?
No, in realtà in principio c'era solo la canzone che poi ha dato il titolo al lavoro. Nel momento in cui è venuto fuori il ritornello, con la parola Delirium ripetuta, è come se ci fossero state aperte un sacco di porte a livello di ispirazione. In quel momento abbiamo capito di cosa l’album avrebbe parlato.

Il sanatorio al quale vi riferite ha un riferimento reale o è un luogo di fantasia?
Abbiamo messo insieme i ricordi e le sensazioni di posti che visitato. Sono luoghi che trasmettono una sensazione di disagio e di pesantezza. E volevamo riportarla nel disco. Così ci siamo inventati questo manicomio immaginario, creandone addirittura il logo (quello dell’elefante che si vede nelle patch - ndr). Abbiamo immaginato le diverse stanze, i pazienti che le abitavano e anche gli spiriti di chi le aveva abitate in precedenza.

Un luogo per i folli in un mondo che sembra essere sempre più sulla strada della pazzia...
Cristina: E infatti le canzoni sono sempre in delicato equilibrio tra storie di fantasia e riferimenti all'attualità. Impossibile non essere condizionati dagli eventi e dal caos che attanagliano il mondo in questo momento, un vero “delirium”. Sia negli eventi più grossi ma anche nei piccoli gesti di pazzia quotidiani che ormai prendiamo come normalità. E’ stato un lavoro di mesi, molto complesso.
Andrea Ferro: Abbiamo fatto un parallelo tra l’aspetto medico e quello quello vissuto sulla nostra pelle. Situazioni sulla depressione, sul vissuto quotidiano.

La copertina è di grande impatto, con l'immagine di Cristina riflessa in uno specchio mezzo coperto da della condensa. Come è nata?
Cristina: Del tutto per caso. Volevamo un artwork bello ma allo stesso tempo realistico, senza grafica o immagini fiabesche. Tenevamo molto a dare una rappresentazione seria del tema, non offensiva.
Andrea: Avevamo visto anche molte foto in bianco e nero di pazienti di questi manicomi. Immagini molto inquietanti, non nel senso horror ma per la tensione e la sofferenza che trasmettevano. Erano molto più forti di una classica immagine di violenza che si lega ai clichè sul manicomio.
Cristina: Durante una sessione fotografica in uno di questi luoghi abbiamo trovato questa stanzina nella quale c'era uno specchio. Mi è venuto spontaneo scrivere la parola Delirium sul vetro e il nostro fotografo ha ripreso tutto. Quando poi l'abbiamo vista abbiamo capito che era quella giusta.

Rispetto agli ultimi lavori i suoni sono più pesanti. Avevate voglia di spingere sul vostro lato metal?
Andrea: Dal punto di vista sonoro noi seguiamo quello che viene, senza porci particolari obiettivi ma nemmeno paletti. Io e Cristina ci occupiamo soprattutto dei testi, mentre la parte strumentale è in genere scritta dal nostro bassista, Marco. Lui compone guardando la televisione, la tiene silenziata e si fa ispirare dalle immagini. Come se creasse delle colonne sonore dal vivo. 
Cristina: Non ci siamo mai seduti a tavolino per decidere il sound di un disco, abbiamo sempre fatto uscire quello che avevamo dentro.

Come mai avete deciso di autoprodurvi?
Cristina: Pensavamo fosse arrivato il momento. Alla fine siamo insieme da tanti anni e abbiamo lavorato con diversi produttori e volevamo vedere quanto potessimo fare da soli, se potevamo camminare con le nostre gambe. Marco è sempre stato il nostro produttore interno, noi avevamo in testa il nostro suono. E quindi… perché no?
Andrea: Per Marco è stato un processo un po' stressante perché in passato aveva prodotto band emergenti ma qui si trattava di un gruppo di peso e per di più il suo. Quindi si è sentito caricato di una grande responsabilità. Credo però che alla fine abbia fatto una ottimo lavoro. Si è visto tutto quello che abbiamo imparato lavorando con grandi produttori in passato come Don Gilmore o Jay Baumgarden. Siamo riusciti ad accorgerci anche noi stessi quanto avessimo assimilato da queste persone. C'è stata una presa di coscienza che potevamo fare da soli.

Mentre il vostro album esce voi ricominciate con i concerti negli Stati Uniti. Ormai vi hanno adottati?
Andrea: Siamo uno dei pochi gruppi europei che ha una presenza fissa in America in tutti gli ambiti, non solo quella metal. All'inizio ci prendevano per italoamericani del New Jersey, quando dicevamo che eravamo proprio italiani rimanevano stupiti. Comunque avvertiamo molto orgoglio negli italoamericani di terza o quarta generazione.
Cristina: Devo dire che ormai non ci vedono come una realtà italiana all'estero, ma come un gruppo internazionale. Non c'è folklore, ma solo apprezzamento.