Luca Ricolfi sulla Stampa di Torino
Quando si parla di declino dell'Italia, o di ritardo rispetto agli altri Paesi europei, si citano spesso il tasso di crescita del Pil, l'inflazione, il debito pubblico, le spese in ricerca e sviluppo, i tassi di scolarizzazione. Meno sovente si ricorda un'altra dimensione su cui l'Italia è terribilmente indietro rispetto al resto dell'Europa: il tasso di occupazione femminile.
Su questo aspetto siamo all'ultimo posto in Europa, preceduti persino da Grecia, Spagna e Portogallo. Se l'Italia si ponesse come obiettivo dì raggiungere il tasso di occupazione dell'Europa a 12 (area euro) le basterebbero 300 mila posti di lavoro maschili in più, ma le occorrerebbero ben 2 milioni di nuovi posti di lavoro femminili, in massima parte concentrati nelle regioni centro-meridionali ma in qualche misura anche nel NordOvest (solo il Nord-Est ha già oggi un tasso di occupazione femminile europeo). E' curioso che fra i grandi temi dell'agenda politica quello de ll'occupazione femminile riceva così poca attenzione, anche a sinistra.
Chi denuncia continuamente (e giustamente) il fatto che tante famiglie, dopo l'introduzione dell'euro, non riescano ad «arriva+ alla fine del mese», dovrebbe forse assegnare una priorità più alta all'obiettivo della piena occupazione femminile. Intanto perché un maggior numero di donne occupate implicherebbe «un reddito in più» nelle rispettive famiglie. E poi perché, se si desidera aumentare il potere di acquisto delle famiglie senza danneggiare la competitività delle imprese, è di gran lunga preferibile puntare sull'inclusione dei «non garantiti» piuttosto che su aumenti salariali ai già occupati.
Ma c'è anche un altro ordine di ragioni che segnala la centralità della «questione femminile». Da una ventina d'anni non solo in Italia ma un po' ovunque le donne sono all'avanguardia in quasi tutti i settori. A scuola le ragazze vanno meglio dei ragazzi. All'Università le studentesse ottengono medie più alte, si laureano in meno anni e lo fanno con voti migliori. In alcune situazioni (Gran Bretagna) lo scarto fra maschi e femmine è così grande che si stanno sperimentando delle specie di «classi differenziali» per recuperare i maschi.
A fronte di tutto ciò sta il fatto che il sistema produttivo continua a privilegiare l'occupazione maschile, e lo fa tanto più nettamente quanto più le posizioni ricoperte sono elevate. Quando riescono a stare sul mercato del lavoro le donne competono (abbastanza) efficacemente nei gradini iniziali della carriera lavorativa, ma devono cedere il passo non appena si tratta di salire i gradini successivi.
Quel che vale in generale vale, in misura anche maggiore, in campo politico. E' vero che alle donne la politica interessa di meno che agli uomini, ma in nessun Paese europeo la percentuale di donne parlamentari è bassa come in Italia. Hanno fatto bene le parlamentari italiane, e innanzitutto il ministro Prestigiacomo, a porre con forza il problema, e a battersi perché nel prossimo Parlamento siedano più donne.
Si può discutere all'infinito sui mezzi per ottenere questo risultato, e in particolare sull'idoneità delle cosiddette «quote rosa», ma è difficile non riconoscere le buone ragioni di chi conduce questa battaglia, nonché i benefici effetti di un contenimento del monopolio maschile della politica. E tuttavia sarebbe ancora più meritorio se, oltre a cercare di infoltire la propria rappresentanza, le donne che fanno politica si impegnassero a fondo per riportare la questione femminile al centro dell'agenda politica, promuovendo misure incisive sul doppio versante dei servizi (asili nido) e delle chances occupazionali. L'Italia ha un deficit drammatico di competitività innanzitutto perché ha un deficit drammatico di meritocrazia.
E il deficit di meritocrazia punisce innanzitutto le donne, che non riescono a trasformare in opportunità di lavoro e di carriera il loro «eccesso» di capacità. Da questo punto di vista la questione femminile è al tempo stesso un problema e una risorsa, un segnale di allarme e un'indicazione di percorso: ci dice che cosa non va, ma ci suggerisce anche una strada per uscire dalle secche del declino.