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Brexit, l'ipotesi di dimissioni di Theresa May slitta a venerdì

Potrebbero essere gli ultimi giorni della premier britannica a Downing Street. Il suo esecutivo perde un pezzo importante: il ministro Andrea Leadsom ha infatti annunciato le dimissioni

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Sembra rinviata almeno a venerdì l'ipotesi di dimissioni di Theresa May da leader Tory e da primo ministro britannico.

Lo riferiscono fonti di Downing Street, che escludono la possibilità che la premier possa uscire di scena già in serata. Intanto l'esecutivo guidato dalla premier conservatrice perde una figura di spicco: il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Andrea Leadsom, ha infatti annunciato le dimissioni.

La Leadsom, ritenuta una pretendente alla leadership Tory e alla guida del governo, è stata in prima fila nelle riunioni organizzate in seno al partito per cercare di ottenere le dimissioni della May. Quelle del ministro sono le dimissioni numero 36 nella travagliata storia del governo May. Andrea Leadsom, in una lettera alla premier dai toni piuttosto duri, sottolinea di essere consapevole che giovedì "ci sono le elezioni" europee nel Regno Unito, ma spiega, malgrado la tempistica, di non poter sostenere la legge sulla Brexit illustrata dalla premier. Una legge che, a suo dire, non garantisce più "il rispetto del risultato del referendum" del 2016.

Venerdì la May ha accettato di vedere il deputato Graham Brady, presidente del Comitato 1922, influente organismo interno al gruppo parlamentare conservatore riunitosi per discutere del destino della premier.

Intanto la corsa per la scelta dei 73 eurodeputati britannici a Strasburgo - tutti sub iudice e destinati a uscire di scena nel momento in cui il divorzio fosse finalmente formalizzato - non sembra appassionare in effetti quasi nessuno oltremanica, dove del resto l'affluenza per questo tipo di consultazione è sempre stata sotto il 40%. Non solo perché i risultati si conosceranno domenica 26, quando voterà la maggior parte degli altri Paesi, ma soprattutto per i venti di crisi politica scatenatisi a Londra, e accompagnati per colmo di disgrazia anche dal crac di British Steel, industria dell'acciaio con cinquemila lavoratori a rischio.

L'estremo tentativo di compromesso della May per provare a riproporre a Westminster entro il 7 giugno la partita della ratifica della Brexit, dopo le bocciature a ripetizione e gli inestricabili veti incrociati dei mesi scorsi, sembra aver prodotto un plateale effetto boomerang. Il testo della legge di attuazione del recesso dal club europeo (Withdrawal Agreement Bill), concepito come uno sforzo di compromesso con le opposizioni, ha finito con lo scontentare tutti o quasi. I " dieci punti di novità", illustrati martedì dalla premier Tory in pubblico e presentati mercoledì alla Camera dei Comuni, sono stati accolti da un clima a metà fra l'ostilità e il disinteresse, in un'Aula che si è andata in parte svuotando mentre il primo ministro ancora parlava. Concessioni eccessive per una larga porzione di conservatori e non solo tra i falchi "brexiteer" ribelli, furiosi in particolare per le aperture del primo ministro alla disponibilità di far votare un nuovo emendamento sull'ipotesi di un referendum bis (seppure con parere contrario del governo).

Concessioni cosmetiche per le opposizioni: con il "no" immediato del leader laburista Jeremy Corbyn motivato tanto da ragioni di merito, quanto dalla convinzione d'aver a che fare con un'interlocutrice ormai bruciata, incapace di garantire la sopravvivenza di "qualunque intesa di compromesso" sullo sfondo della "sfida alla sua leadership" in casa Tory. Una premier "senza più autorità" che, nel giudizio di Corbyn, dovrebbe passare la mano a elezioni politiche anticipate e che tuttavia per ora, e almeno fino a venerdì, non si dimette. Nemmeno di fronte alle congiure di palazzo intrecciatesi nel pomeriggio in seno al suo partito e al suo stesso gabinetto.

Rinchiusa a Downing Street, dopo l'intervento a Westmister, Theresa May ha resistito per ore, rifiutando di riceverli, all'assedio del viavai annunciato di vari ministri - dal titolare degli Esteri Jeremy Hunt a quello dell'Interno Sajid Javid, a quello della Scozia David Mundell - che avrebbero voluto intimarle la resa o almeno discutere un percorso verso il congedo. Congedo che il voto parlamentare di giugno renderebbe al più tardi obbligato, ma la cui pratica la parrocchia Tory vuole sbrigare prima. A spingere in questa direzione sono diversi deputati, riunitisi nel Comitato 1922, organo chiave per l'elezione dei leader conservatori. Ma soprattutto gli aspiranti successori annidati nella compagine governativa.

Sullo sfondo si agita un ultimo sondaggio pre-voto europeo, segnato in Gran Bretagna dall'ennesimo record del nuovo Brexit Party di Nigel Farage, indicato ora sino al 37% dei consensi; col Labour in pesante calo al 13%, scavalcato al 19% degli europeisti irriducibili in maggiore ascesa, i LibDen, e insidiato al 12 pure dai Verdi. E con i Conservatori schiantati senza più guida addirittura alla miseria d'un potenziale 7%.

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