Colin Powell su il Corriere della Sera
Segretario di Stato Colin Powell, quali sono le prioritá dopo la transizione dei poteri del 30 giugno in Iraq?
«Dobbiamo concentrarci sulla sicurezza. Dobbiamo lavorare con gli iracheni per farlo. Ci saranno le elezioni, ma bisogna che ci sia un clíma dí relativa sicurezza perché ció avvenga. Vogliamo restaurare il potere in Iraq, vogliamo portarlo a livelli ancora piú alti di quanto non sia ora. Quíndi, la missione di riportare sicurezza nel Paese rimarrá una delle prioritá imprescindibili.
«Dal momento che la sicurezza diventerá sempre piú una responsabilitá del nuovo governo, la seconda prioritá é quella di costituire delle forze armate irachene in tempi fattíbílí. Dico "fattibili" perché é facile mettere un uomo in divisa, ma questo non produce degli individui addestrati o un'unitá militare.
«Dobbiamo dare al governo ad interim tutto il supporto possibile per accrescere la sua posizíone di governo adeguato agli occhi del popolo iracheno. Si tratta di un governo nuovo, che non dispone ancora di tutto lo staff e che sta mettendo a punto le sue procedure. Per questo ho creduto che fosse importante mandare come ambasciatore non una persona che sia al comando delle forze militari, ma una persona che lavori con loro, abilissima nelle arti diplomatiche e con esperienza in altri Paesi che hanno vissuto momenti diversi di trasformazione: Honduras, Messico e le Filíppine. John Negroponte ha una grande esperienza ed ha occupato posizioni dí alta responsabilitá. Era il mio vice quando ero Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Non é solo eccezionalmente qualificato, ma ha anche una profonda comprensione del nesso tra la sfera politica e quella militare. Dovrá lavorare con i nostri capi mílitari in Iraq. Oltre a questi fattori, c'é tutto lo sforzo diretto alla ricostruzione».
In retrospettiva, qual é stato il problema e che cosa cambíerá ora?
«In retrospettiva, avrei sperato di riu-scire a consolidare le forze di sicurezza irachene piú velocemente. Abbiamo radunato grandi quantitá di uomini, ma non li abbiamo equipaggiati e addestrati in tempi utili. E credo che cí sia sempre stato un fattore di debolezza in queste scelte, perché le forze irachene non erano collegate a una struttura politica. Lavoravano ancora essenzialmente per noi, non per il loro Paese, ma per gli occupanti.
«Quando le forze irachene sono state realmente messe alla prova a Falluja qualche mese fa, la loro prestazione é stata discutibile. Si spera che quando avranno compreso che stanno combattendo per il proprio futuro, la loro prestazione sará diversa. L'incentivo sará diverso. E questo fa parte della soluzíone del problema sicurezza.
«Quando il nuovo governo avrá assunto il controllo del Paese, i disordini interni non saranno piú diretti contro di noi ma contro il nuovo governo iracheno, anche se i nostri soldati potranno, comunque, rímanere ferití. Allora la gente si chiederá: "Ma cosa vogliono i ribelli? Un governo iracheno con Saddam Hussein al posto di questo?". Per questo é nel migliore interesse dei servizi di sicurezza, che ora vengono addestrati ed equipaggiati, sostenere e servire il nuovo governo iracheno. E il solo fatto di avere dei propri capí, dei capí politici, dovrebbe accrescere la loro capacitá nell'ambito della sicurezza».
Lei ha ovviamente avuto esperienza nel campo dell'addestramento. Altri esperti, che hanno lavorato in Paesi in via di sviluppo, sostengono che ci vorranno un paio di anni prima che l'Iraq possa produrre una forza militare adeguatamente addestrata. Non crede che le previsioni Usa sulla durata di questo processo siano un po' ottimiste?
«Una cosa é prendere 40 uomini, metterli in divisa e insegnargli come marciare a destra, sinistra, destra, sinistra. Ma prima che questo diventi un plotone che si possa chiamare una "banda di fratelli" ci vorrá del tempo. Quello che veramente ci vuole é la motivazione. La gente, le truppe devono voler servire la propria nazione. Devono voler servire i propri capi politici. Devono sentire la causa. Questo é quello che ha reso il nostro esercito cosí grande nelle guerre che abbiamo combattuto. Abbiamo sempre creduto di combattere per una causa. E questo é quello che dobbiamo trasmettere alle nuove unitá: state combattendo per una causa; non state combattendo per l'America. Non state combattendo per l'Autoritá Provvisoria della Coalizione, che non esiste piú. State combattendo per il vostro Paese, per i vostri capi, per il vostro futuro, e anche per il vostro futuro personale. Se volete ricevere una paga regolare nell'esercito iracheno, bisogna che co-minciate a difendere il nuovo governo».
Prima della guerra, funzionari dell'amministrazione speravano che l'Iraq potesse offrire agli Stati Uniti delle basi a lungo termine. E che questo ci avrebbe consentito di ritirarci da altri Paesi nella regione che potrebbero nutrire sentimenti ostili nei confronti degli
Usa. C'é ancora questa speranza?
«Non ricordo che ci sia mai stata questa speranza. Non abbiamo mai pensato di andare in Iraq con lo scopo di avere delle basi in Mesopotamia o nel Golfo. Francamente, con un Iraq democratico, l'intera regione cambia aspetto, in un modo che probabilmente riduce la necessitá di basi militari. Il motivo per cui molte di quelle basi si trovano in quella zona era proprio l'Iraq. Ora, ció non vuol dire che in quanto nazione amica e nostro partner sia inconcepibile per noi avere interesse a tenere delle basi nella zona, ma non era nostra intenzione avere delle basi come quelle in Germania, in Corea o in Giappone. Non escluderei, peró, la possibilitá di una presenza americana nel Paese per un periodo abbastanza lungo, non nella misura in cui siamo presenti ora, bensí come avviene in altri Paesi amici e alleati».
II governo sudcoreano ha detto di voler inviare le truppe, nonostante la decapitazione dell'ostaggio in Iraq. Qual í la situazione con gli altri Paesi che hanno confermato il loro impegno fino al gennaio 2005?
«Ciascuno dovrá decidere autonomamente se e come continuare con il proprio impiego di forze in Iraq. L'Ungheria ha affermato che continuerá la sua missione. I sudcoreani, non appena ricevuta la notizia della decapitazione, hanno coraggiosamente risposto che non si faranno dissuad-re dal mandare altre truppe. E' questa la reazione che vedo da parte di tutti i Paesi che sono con noi. Quello che mi preoccupa di piú é la reazione dei civili, di quelli che come il sudcoreano ucciso, oggi si trovano nel territorio a fare dei lavori umanitari o di ricostruzione. Continueranno a fare il proprio lavoro? O le societá che impiegano queste persone inizieranno a pensare di non potersi piú assumere il rischio? Questo é quello che mi preoccupa di piú.
«Non tutto il Paese é in fiamme. Ci sono dei problemi, ci sono uccisioni quotidiane, ma la ricostruzione procede. La gente deve mangiare, bisogna portare il cibo ed esportare il petrolio. E ci sono persone disposte a fare questi lavori».