Paolo Mastrolilli su La Stampa
Colpire gli alleati degli Stati Uniti per spaccare la coalizione, indebolirla sul piano militare, e mettere in fuga le aziende private, l'Onu e le organizzazioni non governative, che dovrebbero ricostruire l'Iraq. La strategia dei terroristi e dei sostenitori del vecchio regime non é nuova, ma sta prendendo un connotato molto piú tragico con le decapitazioni dei civili, che hanno un impatto piú diretto sull'opinione pubblica dei Paesi presi di mira. L'ultimo caso é quello coreano, che secondo il responsabile degli studi strategici della think tank «Csis», Anthony Cerdesman, ha un chiaro valore esemplare: «Seul appartiene al gruppo di alleati meno abituati a questi interventi, e meno vicini alla realtá del fondamentalismo islamico. Nel paese c'é un generale sentimento antimilitare crescente, legato in parte allo sforzo di risolvere i problemi con la Corea del Nord per via diplomatica, e quindi la gente fatica a comprendere la necessitá di mandare soldati in un teatro cosí distante.
In piú si aggiunge la revisione in corso della presenza americana nel Paese, e questo complica il quadro. Per certi versi é una situazione simile a quella del Giappone, giá colpito in passato da altri rapimenti, con la differenze che Tokyo é ancora piú frenata a causa della sua costituzione che vieta le operazioni militari all'estero». Non é detto che gli uomini di Zarqawi abbiano fatto tutti questi calcoli, decidendo di decapitare Kim Sunil, dipendente dell'azienda sudcoreana Gana General Trading. Ma secondo l'ex generale William Nash, comandante di brigata durante la Prima Guerra del Golfo e oggi direttore del Center for Preventive Action al Council on Foreing Relations, «e' chiaro l'intento di colpire gli anelli piú deboli dell'alleanza e la componente piú esposta nel processo di ricostruzione, cioé i civili».
Poco prima del rapimento, Seul aveva deciso di inviare entro ago-sto 3.000 soldati ad Erbil, nella zona settentrionale dell'Iraq controllata dai curdi. A loro si aggiungeranno i circa 600 militari e medici già presenti vicino a Nassiriya, trasformando il contingente sudcoreano in quello più numeroso dopo Stati Uniti e Gran Bretagna. Una mossa che il presidente Roh Moo-hyun considera essenziale, per compensare l'impegno degli americani nelle trattative con Pyongyang. Washington ha 37.000 soldati schierati nel territorio di Seul, in maggior parte lungo la zona demilitarizzata al confine con la Corea del Nord. All'inizio di giugno l'amministrazione Bush ha annunciato che entro il 2005 vorrebbere ritirare 12.500 uomini, proprio per spostarli in zone piú calde. Il governo sudcoreano vor-rebbe almeno che la scadenza fosse allungata al 2007 o al 2013, e lunedí prossimo é in programma la ripresa dei colloqui con gli Usa sulle modalitá del riassetto.
In questo clima, l'ultima cosa di cui ha bisogno Roh Moo-hyun é uno strappo in Iraq. «Forse - commenta Cordesman - i terroristi non sanno tutto questo, ma comunque conoscono lo stato d'animo dei vari Paesi e leggono i sondaggi d'opinione sui giornali». Gli ultimi rilevamenti, pubblicati lunedí dai portali internet Daum e Naver e ripresi dal Korea Herald, dicono che oltre il 60% dei coreani é contrario all'intervento in Iraq, mentre 32 parlamentari, 18 del partito al potere Uri, 10 dell'opposizione Democratic Labor Party, e 4 del Grand National Party, hanno firmato una risoluzione per chiedere il blocco dell'invio delle truppe. Per il fine settimana, poi, una coalizione di 365 organizzazioni civili ha indetto una manifestazio-ne allo scopo di domandare il ritiro di tutto il contingente coreano.
Il governo finora ha resistito, confermando che i soldati partiran-no comunque, ma il ministero del Commercio, Industria ed Energia ha deciso l'evacuazione degli ultimi 22 uomini d'affari civili coreani ancora presenti in Iraq. Questo é l'altro problema centrale che riguarda anche gli Usa, fOnu e le organizzazioni non governative: «La guerriglia - spiega Cordesman - continua a colpire non solo gli alleati, ma anche gli americani e tutte le altre strutture pubbliche e private che dovrebbero ricostruire il Paese. Decine di Ong sono andate via dall'Iraq per mancanza di sicurezza, e il Palazzo di Vetro non ha ancora riaperto la sua missione a Baghdad. Ció ha rallentato mol-tissimo la ricostruzione».
Contrastare la strategia dei terroristi é molto difficile, perché a loro basta una singola azione per impressionare tutto il mondo: «Sul piano politico e strategico - spiega Nash - stiamo facendo le cose giuste, ma ci dobbiamo aspettare altre azioni simili. La risposta piú importante é la perseveranza dei governi». Secondo Cordesman «bisogna potenziare le operazioni contro l'insurrezione e favorire il successo del nuovo governo tra la popolazione, per prosciugare il terreno intorno ai terroristi. Ma prima di vedere i primi risultati ci vorrano almeno 4 0 5 mesi».