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"Reagan, un rivoluzionario"

L'opinione di Giuliano Ferrara

08 Giu 2004 - 12:49

La prima cosa che viene in mente, ripensando a Ronald Reagan, è che non era un riformista. Era un rivoluzionario, e per questo ha introdotto nel suo paese e nel mondo riforme possenti, che si sono accompagnate a formidabili risultati. Come la signora Thatcher, altro caso di liberale decisionista al quale non si attaglia l’etichetta ormai smorta di riformista, Reagan era un outsider: lei la figlia del droghiere, lui l’attore mancato.

Reagan ha conquistato l’establishment mondiale, che adesso gli tributa omaggi ed encomi strabilianti dopo averlo linciato per una quindicina d’anni, passando per il popolo e offrendo al sovrano politico della democrazia il decisionismo, il gusto del rischio calcolato, la piena aderenza al mandato imperativo che per due volte aveva chiesto e ottenuto. Ma non era un populista o, se lo era, era un populista democratico. Non si è mai discostato dalla lectio costituzionale dei padri fondatori americani, come dimostra la sua formidabile retorica intorno al matrimonio di libertà & responsabilità combinata con la vittoriosa tendenza, tipicamente neoconservatrice, ad armare l’America e a proiettarla nel mondo per esportare la democrazia oltre il limes sovietico del muro di Berlino.

Ha guidato la società che rappresentava, dal popolino al ceto medio al big business alle grandi lobby pro mercato, dentro le istituzioni, riscattando la particolare debolezza che la società politica americana aveva ereditato nei vent’anni che procedono dall’elezione leggendaria di John Kennedy alla prova rovinosa di Jimmy Carter. Vent’anni di grandi cambiamenti, dalla desegregazione razziale alla “grande società” di Lyndon Johnson, dalla tragedia del Vietnam al free speech movement al Watergate.

Via il senso di colpa occidentale Prima di Reagan l’America si sentiva in colpa, si era fatta pervadere dall’egemonia
della adversary culture individuata dal sottile critico Lionel Trilling, credeva di essere l’Impero del Male e subiva, sia con le presidenze democratichesia con quelle repubblicane, l’assalto antagonista di quel modello sociale che pretendeva di curare con i miti dell’egualitarismo e del pacifismo i mali del mondo. Lo stesso realismo dei Nixon e dei Kissinger, che produsse la visionaria apertura alla Cina di Mao e ripiegò dalla trappola vietnamita in cuierano finiti i predecessori della nuova frontiera, fu una variante difensiva intelligente di questa inclinazione a dimenticare il ruolo storico della democrazia costituzionale più antica della terra. Un ruolo riscoperto tanto da Bill Clinton, che ne diede una versione apparentemente bonaria e riformista, e infatti combinò poco al di là della sua fortuna, e da Bush numero 43, il George W. che, al contrario di suo padre diretto successore di Reagan, nell’epoca del reaganismo si era fatto le ossa ed era cresciuto in quella cultura, diventando anche lui, in quanto texano e traditore della East Coast, un “cowboy”. “Tear down this wall, Mr Gorbaciov”: con l’invocazione a tirare giù il muro di Berlino finì il lungo inverno degli Stati Uniti come potenza imperiale, perquanto riluttante, che negava se stessa. La vittoria nella guerra fredda, che fu ottenuta con il concorso decisivo della predicazione di Giovanni Paolo II e della lotta nazionale e di classe degli operai di Lech Walesa, aveva radici solide e antiche.

Nell’impostazione manichea di Reagan, già sindacalista e fervente anticomunista nella Hollywood degli anni duri, c’era anche un po’ di Joe Mc- Carthy, il solitario cacciatore di streghe della metà degli anni Cinquanta che fu isolato, battuto, emarginato e anche personalmente calunniato e dannato oltre le sue colpe dall’America liberal e dai suoi poteri diffusi, principalmente quello dell’esercito. Nessuno riabiliterà mai quel focoso ubriacone, e i suoi collaboratori in sospetto di sodomia nella pubblicistica poco liberal dei liberal; nessuno lo riabiliterà a causa della sua spietata retorica populista e della sua demagogia di americano del Grande Sud: ma quel disperato cold warrior che fece vergognare di sé l’America rispettabile, il delatore Joe che di comunisti pro sovietici nel Dipartimento di Stato e altrove ne aveva pizzicati a derrate, fu tra gli esemplari precursori della durezza sorridente, con i denti d’acciaio, con cui Reagan si sbarazzò più tardi dei filosofi della coesistenza tra regimi sociali diversi, per dare poi l’assalto vittorioso all’impero sovietico, esportando a est con missili e scudi stellarila democrazia di cui ora un meschino Romano Prodi si fa ridicolo e usurpato vanto.

Economia, ideologia, geopolitica La forza di Reagan, anche in economia e non solo nella geopolitica, è che si comportava da quell’uomo semplice che era. Disponeva di un’ideologia pragmatica, rozza e persuasiva. Quando Berlusconi entrò in politica, fu Gad Lerner sulla Stampa a capire in fretta che aveva toni “da Reagan della Brianza”. Con una differenza, purtroppo. Reagan nel privato professionale aveva dato risultati minori, era un attore mancato, e da outsider imparò ad amare la politica, costruì formidabili staff che ancora durano e si perpetuano nelle diverse amministrazioni, fece un apprendistato decisivo nel governo della California, non rinnegò la tradizione politica americana, non ne trascurava l’impatto e la solidità, piuttosto la interpretò; Berlusconi invece le sue vere, grandi soddisfazioni le ha avute come imprenditore privato, e da quella matrice non è riuscito fino ad ora a staccarsi, rendendo più tortuoso e difficile un credibile profilo politico e istituzionale, nonostante risultati indiretti di colossale portata. Anche Reagan se ne infischiava della cultura come ornamento, ed era uomo di grandi gaffe, gaffe da condottiero impavido,da uomo laser focalizzato sui risultati e non sugli effetti delle sue azioni nel circuito washingtoniano: disse perfino che Cipro era in Italia, raccontava barzellette senza impaccio, sfidava perbenismi e consuetudini delle corporazioni “riformiste”, quelle che non vogliono mai cambiare alcunché.

Ma diede spazio alla formidabile macchina di governo degli Stati Uniti, scelse la scuola economica di Chicago e al monetarismo restò fedele a scorno dell’impopolarità presso i riccastri liberal così preoccupati in apparenza del destino dei poveri di fronte alle insidie del mercato. Sua una battuta che brilla ancora della luce dell’individualismo responsabile del conservatorismo americano: “Ho un solo modo di aiutare i poveri, ridurne il numero diventando ricco”. Quello era il genio del cowboy che menti raffinate e sciocche hanno sempre disprezzato. Era il genio dell’America come motore dell’occidente e del suo modello di democrazia costituzionale. Tu puoi farti dominare dal big government, dalle oligarchie che ti pagano il welfare con la concertazione e l’opacità dello Stato universale, e ti promettono un destino di servo tranquillo, di impiegato globale; oppure no, puoi darti una mano senza aspettare il soccorso pubblico, puoi ridurre il potere dello Stato e aumentare il tuo, quello della società, affrontando certe durezze della vita e della politica con spirito ottimista, credendo nella competizione come tecnica e nella libertà come soccorso privato, come cooperazione e sfida nel mercato del lavoro, dei beni, della finanza e delle tecnologie. Il cowboy dalla voce vellutata e dal pugno di ferro diede agli americani quello che agli europei continentali continua a mancare: il riconoscimento di sé in un orgoglio temperato dalla civiltà della tolleranza, ma irriducibile. Per questo adesso lo piangono quasi tutti, e a Washington venerdì gli saranno tributati gli onori del mondo, tra il vero rimpianto americano e le lacrime di coccodrillo degli europei.

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