30/09/2011 - 29/01/2012

Oro dai Visconti agli Sforza al Museo Diocesiano Milano

Splendidi smalti e manufatti di orificeria realizzati nel Ducato dfi Milano

02 Feb 2012 - 12:23
Oro dai Visconti agli Sforza Museo Diocesiano 28/09/2011  © Gianni Marussi

Oro dai Visconti agli Sforza Museo Diocesiano 28/09/2011  © Gianni Marussi

Il Museo Diocesiano si appresta a compiere a novembre i dieci anni di attività e presenta per celebrarli una grande mostra aperta fino al gennaio 2012.

Il Presidente Mario Brianza vorrebbe che "si evidenziasse quanto in questi dieci anni il museo abbia cercato, con esiti positivi, di porsi in relazione con la Città e soprattutto con i giovani, cercando di non disattendere la propria funzione di conservazione del patrimonio, ma di allargarla  ai temi della divulgazione e della comunicazione”.
Per il Direttore, Paolo Biscottini: “il museo non è solo il luogo della conoscenza, ma anche e forse oggi soprattutto dell’esperienza della bellezza come scoperta di una dimensione nuova del vivere”.

Poche corti possono eguagliare in sfarzo e ricchezza quella viscontea- sforzesca tra XIV e XV secolo.

La mostra intende esplorare, per la prima volta in Italia, l’evoluzione dell’arte orafa a Milano tra il XIV e il XV secolo, attraverso 60 capolavori, tra smalti, oggetti d’oreficeria sacra e profana, codici miniati provenienti dai più prestigiosi musei e istituzioni italiani e internazionali, come la National Gallery di Washington, il Louvre di Parigi, il Musée Massena di Nizza, la Collezione Valencia de don Juan di Madrid, la Cattedrale di Essen (Germania).

Questa splendida mostra documenta la capacità incredibile di produrre manufatti preziosissimi che hanno resa Milano famosa nel mondo. 

L’eccezionalità dell’esposizione è testimoniata dal fatto che, in virtù della loro fragilità, molti dei pezzi presentati escono per la prima volta dal museo che li conserva e dove, in alcuni casi per timore di essere danneggiati dalla luce, non vengono esposti al pubblico. Il mecenatismo dei Visconti, alla fine del XIV secolo, rese Milano il centro artistico più attivo e importante dell’epoca, famoso in tutta Europa. Nel 1360, Galeazzo II Visconti fece erigere il castello di Pavia, trasformandolo ben presto in uno scrigno di codici, miniati dai più famosi maestri del tempo, come Giovannino de’ Grassi e Michelino da Besozzo, pittore e miniatore, qui con il codice Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti, con la raffigurazione dell’incoronazione a Duca di Gian Galeazzo Visconti, proveniente dalla Bibliothèque Nationale di Parigi, e col foglio miniato Dama con falcone, dal Louvre di Parigi. Proprio a Gian Galeazzo Visconti (1351-1402) e alla figlia, la bella Valentina, sposa di Luigi d’Orléans, fratello del re di Francia, si legano alcuni gioielli, realizzati con la tecnica a smalto detta en ronde-bosse, in cui lo smalto è steso sopra l’oro lavorato a rilievo, creando così delle micro sculture, caratterizzate da soggetti naturalistici, anche in senso araldico, come la tortorella su un sole raggiato e il motto À bon droyt, che tradizione vuole creato da Francesco Petrarca
Dopo la morte dell’ultimo erede Filippo Maria Visconti, che portò al grande saccheggio del Castello Visconteo e alla dispersione del tesoro, la tradizione orafa milanese seppe continuare anche sotto la dinastia degli Sforza, com’è testimoniato dal Tabernacolo realizzato per la cattedrale di Voghera (1456 circa; ora nelle Civiche Raccolte d’Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano), le cui forme tardogotiche ricordano l’architettura del Duomo di Milano. 
Un rinnovato vigore segnò il ducato di Ludovico il Moro che ricostruì il tesoro dinastico, la cui bellezza e ricchezza riuscì a stupire una raffinata collezionista quale Isabella d’Este, signora di Mantova. Sono anni che vedono la presenza di Caradosso Foppa, maestro di Benvenuto Cellini, orefice abile nell’arte degli smalti, ma anche quella di Leonardo da Vinci che si dilettava nella creazione di cinture e borsette, studiando gli smalti e altri materiali per produrre perle finte e oggetti preziosi. Alcune opere in mostra ricordano il passaggio a Milano del genio toscano del Rinascimento, come la piccola anconetta del Museo Correr di Venezia, esposta per la prima volta, che cita la Vergine delle rocce, o la Pace con il Cristo in smalto azzurrato proveniente da Lodi. Proprio la tecnica a smalto è una delle caratteristiche più riconosciute dell’oreficeria visconteo-sforzesca. In particolare, gli artisti milanesi sperimentarono lo smalto "a pittura", la cui qualità realizzativa spesso gareggiava con la miniatura. Ne è un esempio, il medaglione apribile che arriva dalla Collezione Valencia de Don Juan di Madrid, con la Deposizione della croce che si staglia sulla raffigurazione della basilica milanese di San Lorenzo, un’opera eseguita affinché il fedele potesse ripercorrere gli episodi della Passione di Cristo, o ancora il Tabernacolo Pallavicino (ante 1495), proveniente dal Museo Diocesano di Lodi, donato alla cattedrale della città dal vescovo Carlo Pallavicino, ricco di smalti e corredato da statuette d’argento, che si avvicinano alla bottega dei Mantegazza, grandi scultori del Rinascimento lombardo che dimostra quanto l’oreficeria sia in stretto dialogo con l’architettura del momento. Attraverso una serie di cinture ravvivate da inserti smaltati, l’esposizione testimonierà inoltre quanto gli artisti orafi contribuirono all’evoluzione della moda milanese, completando le invenzioni di Beatrice d’Este, la giovane moglie di Ludovico il Moro. E sempre legato alla figura di Beatrice è il raro codice, proveniente dalla Biblioteca Trivulziana di Milano, il Canzoniere per Beatrice d’Este, scritto dal poeta Gasparo Visconti (1495- 1496). 
Chiudono idealmente l’esposizione i Tarocchi della Pinacoteca di Brera, carte da gioco, con fondo d’oro puntinato sul quale campeggiano personaggi abbigliati alla moda in uso nella corte del Ducato di Milano.

ORO DAI VISCONTI AGLI SFORZA
Smalti e oreficeria nel Ducato di Milano

30 settembre 2011 – 29 gennaio 2012

Orari: dal martedì alla domenica, 10-18, lunedì chiuso.

Ingresso: intero: 8 Euro; ridotto 5 Euro.

Catalogo: Silvana Editoriale (www.silvanaeditoriale.it)

Informazioni: tel. 02.89420019 - info.biglietteria@museodiocesano.it - www.museodiocesano.it

Ufficio stampa: CLP Relazioni Pubbliche
tel. 02.433403 - 02.36571438 - fax 02.4813841 - press@clponline.it - www.clponline.it


Museo Diocesano
Corso di Porta Ticinese, 95
Milano

© Gianni Marussi

© Gianni Marussi

 Oro dai Visconti agli Sforza Museo Diocesiano 28/09/2011

“Con bel smalto et oro”. Oreficerie del Ducato di Milano tra Visconti e Sforza di Paola Venturelli  

Oreficerie viscontee

L’8 aprile 1387, Valentina Visconti (1371-1408), figlia primogenita di Gian Galeazzo e di Isabella di Valois, venne data in sposa a Luigi d’Orléans, duca di Touraine, fratello del re di Francia Carlo VI: un matrimonio che si inquadrava all’interno di un’attenta politica di alleanze strategiche, attraverso cui i Visconti avevano progettato di legarsi ai sovrani d’Europa. Portava in dote 400.000 fiorini (una cifra strabiliante), per reperire i quali il padre era ricorso a imposizioni straordinarie ai sudditi.
La bella Valentina che solo nell’agosto di due anni dopo raggiungerà la Francia, trovando oltre allo sposo anche la cognata Isabella di Baviera (1370- 1435), moglie del re Carlo VI, nonché nipote di Bernabò Visconti e sua implacabile nemica, portò con sé un lussuoso corredo dotale, ricco di innumerevoli oggetti. Oltre ad abiti costosi e a raffinati tessuti destinati ad arredare gli ambienti della sua nuova dimora, giunsero gioielli d’ogni tipo, manufatti per la devozione e un sontuoso vasellame d’oro e d’argento, pezzi straordinari per forma e materiale, realizzati con le tecniche in voga al momento nell’oreficeria di pregio.
Una delle coppe d’oro, sfarzosi oggetti che avevano carattere cerimoniale e considerevole valore, era, per esempio, “sizelé a grains dedens, fait en maniere de rayes du souleil sur le couvescle; et a le colet esmaillié de blanc et de rouge” – un dettaglio cromatico appositamente eseguito per alludere a casa Visconti –, vale a dire con quella lavorazione a fitta puntinatura, usata per delineare figurazioni, corrispondente all’espressione “pointillé”, o “punctile”, o “chamosada”, “puntezada”, “granita”, o “cesellata”, caratterizzante l’oreficeria più lussuosa, specialmente negli anni 1380-1400, qui impiegata per ottenere un motivo a raggi e stelle, da connettersi ai vari fiammanti (dalla "radia magna"), presenti nell’araldica visconteo-sforzesca. Connotava peraltro anche l’“hanap et une esguiere” d’oro annoverati nel medesimo inventario, così come nove dei trenta anelli d’oro di Valentina.
A qualificare uno degli altri contenitori era invece un altro tipo di lavorazione, anch’essa tipica del vasellame di pregio tardo trecentesco. Il “gobelet d’or goderonnè hachè d’ymages de haulte taille” era infatti completato da quattro “boutons” in “rouge cler”, eseguiti cioè con lo smalto rosso traslucido su oro, una tecnica dagli effetti di particolare luminosità, adoperata pure per la realizzazione di pezzi en ronde-bosse, tra le oreficerie più desiderate dai ricchi signori d’Europa sul finire del Trecento.
Forse di invenzione francese e riconoscibile per la presenza di smalti (primo tra tutti quello bianco coprente, usato per gli incarnati) stesi su superfici a tutto tondo d’oro, tale tecnica era stata usata anche dagli orefici che avevano approntato le collane, i "Fermagli" (gioielli da applicare sugli abiti come ornamento) e altri oggetti condotti in Francia da Valentina, come rivela la definizione “smaltato de albo” che accompagna la registrazione dei diversi pezzi, per i quali non si erano lesinate perle e gemme della più diversa qualità.
Scorrendo l’inventario dotale di questa titolata fanciulla, si nota immediatamente che gli smalti en ronde- bosse sono usati con straordinaria inventiva in manufatti in cui dominano soggetti naturalistici, con una variegata gamma di presenze animalistiche, anche piegate in chiave araldica al fine di esaltare il casato visconteo.
Uno dei molti fermagli recava un daino “album cum uno breve ad literas dicente: ‘Plus hault’”, l’altro una “dominam sonantem arpam”, un terzo una “tortorella super uno radio auri”, cioè l’impresa della colombina raggiata con il motto A BON DROIT, che sarebbe stata composta da Francesco Petrarca per Isabella di Valois, madre di Valentina, nel 1360, alla fine del lungo soggiorno lombardo del poeta toscano. Ma questa immagine plasmava le risultanze anche di una collana, “facta ad brevia cumliteris: ‘a bon droit’”, con diciotto tortorelle “auri albis” e una diciannovesima, presumibilmente più grande, “in uno radio auri”, a formarne il pendente. Non mancavano una “cervam et unam cervula”, un pellicano “cum rubino in pectore”, due colombette e un “Rangerium” (un cervo o una renna) con le corna d’oro. Alcuni di questi fermagli avevano sagoma circolare (“ad modum circuli”) – come quello con una “cerva alba in medio” –, altri si distinguevano invece per la presenza di ramoscelli intrecciati (“ad bastonos intortilliatos”), una soluzione che rimanda a tredici dei sedici fermagli conservati nel Tesoro della cattedrale di Essen, o all’altro del Bargello di Firenze, con cornice formata appunto da rametti d’oro intrecciati.
Rami d’oro smaltati e avviluppati qualificano pure le collane (“ad bastonos tres”, o a “duas brochas auri intortiliatis”) e alcuni fermagli (“ad duas brochas” e con quattro fiorellini "di non di scordar di me", o a “bastonos intortilliatos”) dei cinquantaquattro gioielli appartenuti a Gian Galeazzo Visconti, conte “di Virtù” (di Vertus) e dal 1395 duca di Milano, ceduti in pegno ai Borromeo (prestigiosi esponenti del ceto mercantile milanese) dalla vedova Caterina Visconti (sua seconda moglie), in parte il 6 ottobre 1402 (Gian Galeazzo morto improvvisamente da poco) e in parte il 29 maggio 1403 per provvedere alle necessità del dominio. Dettagliatamente descritti e con cura valutati, presentano anch’essi un vivace repertorio naturalistico. Torna ripetutamente la tortorella bianca nel sole raggiato e il breve “a bon droyt”, con altre raffigurazioni animalistiche. Uno strepitoso fermaglio d’oro, arricchito da trenta perle “grosse”, oltre che da tre balassi e due zaffiri, recava una “cerva smaldata albo iacente in uno monte viridi”, con corna d’oro impreziosite da quattordici perle, una corona “apensa ad colum cum una catenella” e sul corpo un rubino; un altro mostrava una scimmia su un prato, con un balasso a forma di cuore; un altro ancora, “rotundum”, ornato da tre zaffiri, tre diamanti e sei perle, presentava un “monte” verde, punteggiato da fiori smaltati “azuro albo et rubeo” (altro dettaglio che rinvia ad alcuni dei fermagli di Essen), dove spiccavano una “domicela et un puteo”. Rose bianche, viole e "non ti scordar di me", erano altri dei soggetti sui quali gli orafi avevano esercitato la loro creatività e sapienza artigiana per realizzare i gioielli del potente signore lombardo. Altre tecniche smaltarie, oltre quelle sin qui menzionate, erano tuttavia state impiegate per approntare i pregiati manufatti orafi viscontei.
Trentasei “cucchiaij dorati” portati in dote dall’affascinante Valentina erano “a smalti minuti”, forse da intendersi o con piccoli motivi dipinti in smalto o con minuterie metalliche applicate, così come smaltate erano due delle tre nefs de table recate in Francia – tra i più curiosi pezzi ornamentali delle tavole signorili del tempo – messe come status symbol davanti al piatto del proprietario, al quale alludevano le insegne e le raffigurazioni, che avevano peraltro anche molte funzioni pratiche (porta- sale, porta-spezie, porta-posate o tovaglioli). La prima era “dorée, semée d’esmaulx dessoubz, et sur le bors a quatre roes et un chastel a chacun bout; et en chacun chastel a deux banieres, esmailliées des armes de Mons. de Touraine et du conte de Vertuz” (del peso di 35 marchi e sei once); l’altra, più piccola (pesava trenta marchi), era parimenti dorata e “semée d’esmaulx sur le bort, et dessoubz a quatre roes et deux chasteaux et deux banieres aux bouts”, nonché corredata anch’essa di scudetti con le armi di “Mons. de Touraine et du conte de Vertuz”.
Si trattava di pezzi di ricchezza materica e complessità strutturale evidente, con la raffigurazione plastica dei castelli che richiama subito il foglio 17r dell’Offiziolo Visconti (Firenze, Biblioteca Nazionale, ms. L F 22) – un codice la cui iniziale committenza si deve a Gian Galeazzo Visconti, affidata all’inesauribile fantasia dei minii di Giovannino de Grassi – con nel margine inferiore un castello su una sorta di collina verde e una torre che regge il biscione visconteo, in una pagina in cui spiccano al centro del margine superiore la “raza” affiancata da due tortorelle con il motto “a bon droyt” e, nella parte inferiore, cinque scudetti con il biscione. Ma non meno noto è il f. 19r del medesimo ms. L F 22, con la Creazione del cielo e della terra, in cui Dio Padre è illustrato entro uno spazio raggiato (con allusione alla “raza”), mentre due torri sono miniate al margine destro e sinistro del foglio e, in quello superiore, si nota un colle su cui si erge un castello.
Ancora in smalto erano del resto eseguite le vivaci raffigurazioni zoomorfe che connotavano altri esemplari da tavola e di rappresentanza registrati in questi inventari viscontei.
Appartenuti a Gian Galeazzo erano due contenitori d’oro (del genere “gobeletum sive zaynam”), il primo, valutato ben 270 fiorini e munito di un coperchio sul quale spiccavano uno zaffiro e tre balassi, era tutto smaltato “de foris ad figuras hominum super animalibus et litteras grechas”, con sul fondo la “figura unius hominis cum uno gladio corto in manu, et subtus copergium est vultus unius mulieris cum uno frixo viridi in capite”, mentre il secondo (stimato 250 fiorini) mostrava sull’esterno immagini di santi, con sei angeli sul “copergio et domino nostro Iesu Christo in fondo tenente unum pomum in manu cum una cruce et suptus copergium cum testa beate Virginis”, completandosi sul coperchio tramite tre grosse perle con altre tre più piccole e un balasso “bislongus pertusatus”.
Rappresentazioni simili connotavano pure l’“hanap” annoverato tra i vasi d’argento dorati di Valentina, munito di coperchio e “semé d’esmaulx, a un tréppie a ymages, a un cerv et un cheval”. Un pezzo corredato quindi da una base con tre sostegni (“trepié”), che nella redazione in latino dell’inventario figura tra le trentasei coppe dorate, descritto con “cuperculo esmaillo florono uno, et cum pede, super quo sunt equi, cervi, figurae, et arbores relevatae”. In questa trascrizione risultano del resto anche due bacili “cum rosa relevata, ad animalia et gropos cum arboribus” e molte altre raffigurazioni, una baciletta per altare con sul bordo rappresentazioni animalistiche, nonché due grandi boccali “facta ad animalia et foliamina et figuras”, con altri due, più grandi, smaltati con i medesimi soggetti, ottenuti anche con la lavorazione a pointillé, come indica la più sintetica trascrizione di Corio di questi straordinari manufatti, descritti infatti come due “boccali pure d’argento con molti animali, fogliami, e cesellati a compassi con lettere greche”. La critica ha inspiegabilmente ignorato lo strabiliante vasellame visconteo. Mi pare tuttavia evidente il rinvio ad alcuni esemplari con raffigurazioni animalistiche e antropomorfe eseguite in smalto dipinto su argento, ancora in cerca di coordinate cronologiche e geografiche precise, ricondotti alternativamente alle Fiandre, o alla Borgogna, o a Venezia, con datazioni che oscillano tra il 1400 e il 1450, manufatti che, quantomeno sul fronte delle iconografie, evidenziano stringenti punti di contatto con i nostri vasi.
Sullo scorcio del Trecento Pavia e Milano sono centri artistici d’assoluta rilevanza.
A Pavia Galeazzo II Visconti fa erigere in gran fretta il castello, tra il 1361 e il 1366, nei cui ambienti saranno custodite la celeberrima biblioteca viscontea e le innumerevoli reliquie delle quali era famoso possessore Gian Galeazzo, il quale proprio sulle pareti di questa nuova dimora troverà modo di manifestare le sue propensioni profane e le preferenze per i soggetti naturalistici. A Pavia, nel cantiere di San Pietro in Ciel d’Oro è attivo nel 1388 Michelino da Besozzo, inimitabile realizzatore di rappresentazioni animalistiche – come attesta Uberto Decembrio – con risultati ammirati all’inizio del Cinquecento da Marcantonio Michiel che ebbe modo di vedere “el libretto in quarto in cavreto con li animali coloriti de mano de Michelino milanese”, secondo una specialità avviata da Giovannino de Grassi con il Taccuino di Bergamo (Biblioteca Civica A. Mai, Cassaf. 1, 21), formato da diversi fogli con raffigurazioni perfettamente adattabili a fermagli del tipo dell’esemplare di Essen, o di quelli descritti negli inventari di Valentina e dello stesso Gian Galeazzo. E sempre a Pavia Michelino (un autore il cui nome è più volte menzionato nelle vicende dell’oreficeria viscontea) esegue affreschi, portando avanti impegni anche per il castello tra il 1402 e il 1404, quando è chiamato “pro vitriatis”, e perché sommo nell’“arte pictoria et disegna menti”, presso la Fabbrica del Duomo di Milano – la cui fondazione risaliva al 1386 –, cantiere di maestranze diverse, tedesche, borgognone, ungheresi, francesi che operano in dialettico rapporto, coniando un linguaggio dove si mescolano in una sintesi altissima e peculiare stili diversi.
Quanto a Milano, dove si registra già agli inizi del Trecento una fiorente Scuola di valenti orefici, da tempo la tecnica smaltaria era specifica tradizione delle botteghe cittadine che si erano altamente cimentate nel cloisonné sia per realizzare l’altare nella basilica di Sant’Ambrogio (circa 835), eseguito da Wolvinio – che si firma “magister phaber” –, sia per la coperta di evangeliario del duomo di Milano, in cui è proposta una tecnica smaltea nuova, “l’applique en demi-bosse”, come notava Marie- Madeleine Gauthier, un’opera eseguita su committenza d’Ariberto d’Intimiano (circa terzo decennio dell’XI secolo), sperimentando quindi il traslucido nel paliotto d’altare eseguito da Borgino del Pozzo e bottega (1350-1357) per il duomo monzese. Una grande tradizione artigiana che proseguirà ininterrotta sino al Barocco, esemplandosi nel periodo che ci interessa anche attraverso l’uso dello smalto filigranato, quindi di quello a pittura, nelle sue molteplici e raffinate varianti.
È quindi altamente improbabile che gli orefici lombardi non si fossero applicati anche nello smalto en ronde-bosse, la tecnica emblematicamente rappresentativa del gusto delle corti intorno al 1400. E del tutto irragionevole pensare, come invece sembra orientata la maggior parte della critica oggi, che gli esemplari orafi annoverati negli elenchi di Valentina e di Gian Galeazzo Visconti, membri di un casato tra i più potenti d’Europa, fossero stati acquistati in Francia, dato i valentissimi e numerosi maestri milanesi disponibili e i costi che l’importazione di oggetti da centri stranieri avrebbero comportato.
Paola Venturelli, Curatrice della mostra
© Gianni Marussi

© Gianni Marussi

Oro dai Visconti agli Sforza Museo Diocesiano 28/09/2011 

 Per il Direttore del Museo Diocesano di Milano, Paolo Biscottini, la mostra che inaugura il decennale del Museo Diocesano ha alle spalle innumerevoli studi che trovano il loro fulcro nella grande esposizione che nel 1958 a Palazzo Reale venne dedicata all’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza.

Gian Alberto Dell’Acqua, che della mostra e di studi precedenti e seguenti relativi all’argomento fu certamente uno dei grandi interpreti, mi parlava spesso dell’entusiasmo che accompagnò tutta l’iniziativa.

Si riscopriva la grandezza di Milano, la sua dimensione internazionale e il suo vero ruolo nel lento trapasso dal linguaggio tardo-gotico a quello rinascimentale.

Si veniva chiarendo che, come non era possibile distinguere radicalmente la produzione artistica viscontea da quella sforzesca, né tanto meno “intendere i nomi delle due dinastie principesche a guisa di simboli di altrettante, ed opposte, posizioni di gusto”, così non si poteva avanzare l’ipotesi di un passaggio netto dal gotico alla rinascenza, chiarendosi sempre di più la gradualità e anche la mescolanza linguistica che, sosteneva Dell’Acqua, nelle arti applicate si evidenziava ancor meglio e più chiaramente che nella pittura o nella scultura.

Il Museo Diocesano, che con questa mostra chiude il primo decennale della sua vita, desidera allora ricordare il grande studioso e maestro che alla nascita di questa istituzione della diocesi ambrosiana contribuì in modo rilevante, partecipando non solo a tutte le commissioni di studio preparatorie al progetto, ma prodigandosi, già molto in là con gli anni e non più impegnato nella vita attiva, in consigli e suggerimenti a chi scrive, fino a voler partecipare con entusiasmo all’inaugurazione del 2001, pur già costretto in una sedia a rotelle.

Da lui nacque l’idea di una mostra ampia che dai Visconti agli Sforza creasse il contesto in cui collocare quella cappella Portinari che egli contemplava dalla finestra della sua casa di via Santa Croce, e che noi consideriamo al centro del complesso di Sant’Eustorgio, in cui l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, volle collocare questo Museo, perché vivesse anche della forza simbolica del luogo.

Allo studioso, innamorato dell’arte lombarda nelle sue diverse epoche, non sfuggiva la centralità del Foppa e anche di quell’apporto architettonico che univa Milano al gusto e alla sensibilità toscana.

Appare inutile raccontare perché quella mostra non si riuscì a fare, ma non si può non dire che questa, che oggi inauguriamo, nasce da lì e anche da lui, dalle sue intuizioni e dalla sua passione.

Negli smalti e nell’oreficeria dai Visconti agli Sforza nel Ducato di Milano andiamo cercando dunque il filo di uno stile lombardo e il lento mutamento del linguaggio, apprezzando la ricchezza viscontea e la sua graduale conquista di forme sempre più salde nello spazio e più intensamente impegnate sul piano narrativo.

Potremmo dire che, passando da un’opera all’altra, lentamente nel proseguo degli anni, andiamo verso una visione sempre più lucida della realtà e una concezione umanistica più determinata, mentre le tecniche si vanno affinando, anche in risposta a committenze sempre più elevate. Ma soprattutto si avverte il senso di un percorso ininterrotto, in cui gli artisti rinnovano schemi precedenti, attenti all’arte del passato e pronti a innervarla di spunti nuovi, coerenti con l’evoluzione del gusto, ma anche con gli altissimi esempi della tradizione, rappresentata da maestri sommi. Così nel Tabernacolo di Voghera, conservato al Castello Sforzesco, scorgiamo corrispondenze sorprendenti con l’architettura del Duomo di Milano e, come nota Paola Venturelli in catalogo, con la miniature di Giovannino de Grassi.

Analogamente nel Tabernacolo Pallavicino la struttura del tempietto sembra porsi in stretta connessione con l’interno dell’Incoronata di Lodi, voluta dallo stesso Carlo Pallavicino su disegno di Giovanni Battaggio. E nelle statuette degli apostoli intorno i riferimenti artistici richiamano i modi aspri e accartocciati della scultura dei Mantegazza, mentre gli smalti evidenziano contatti con maestri raffinatissimi di ambito leonardesco. 

Il Ducato di Milano diviene un grande e sorprendente laboratorio di idee e di stile che va definendo un linguaggio decisamente lombardo di chiara e icastica evidenza.

Il Museo Diocesano dichiara con questa mostra il suo radicamento nella storia dell’arte lombarda, di cui vuole cogliere la peculiarità e l’incessante aspirazione alla novità, al progresso. 

Valori fondanti di uno stile che, pur facendo costantemente leva sul passato, sa mescolare nuovo e antico in opere di rara bellezza, dove l’attenzione si sposta continuamente da questioni prettamente artistiche a ragioni devozionali, sempre portate a un livello qualitativo altissimo, grazie anche all’intervento di grandi maestri e al continuo aggiornamento stilistico. Fra queste opere si avverte la necessità di menzionare almeno il Reliquiario degli Innocenti (Milano, Museo della Basilica di Sant’Ambrogio), che purtroppo non può essere nella nostra mostra, mentre era in quella del 1958. 

In esso sorprende l’incrocio di valori diversi, concorrenti a configurare una “delle cose più pregevoli dell’arte lombarda prima del 1450”.

L’iconografia, collegata alla liturgia ambrosiana per la particolare venerazione del 28 dicembre in Duomo,è sostenuta da un impianto stilistico prossimo alle cose tarde di Michelino da Besozzo, mentre il sistema narrativo è stato giustamente accostato da Sandrina Bandera al ciclo degli Zavattari a Monza.

L’interesse della mostra per le arti decorative di questo periodo costituisce un’occasione suggestiva per ripensare non solo al mecenatismo della corte milanese, ma più in generale al ruolo di Milano in questo ambito, alla ricchezza e alla diversità delle tecniche e dei materiali impiegati per il raggiungimento di una preziosità che è negli intenti e negli ideali prima ancora che nell’oro e negli smalti.

 Paolo Biscottini, Direttore del Museo Diocesano di Milano

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