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Dalla rivoluzione di Billy Bidjocka al dado magico di Adji Dieye

I tesori del Continente nero esposti alla DakʼArt 2016 In e Off

All'Ancient Palais de Justice la "Rivoluzione" del camerunense Billy Bidjocka, installazione apocalittica che oscillando tra idealismo e senso della disfatta mette in scena la potenza di un'utopia.

All'Institut français de Dakar il  "Maggic Cube" di Adji Dieye, serie di scatti in cui la fotografa italosenegalese con uno sguardo acuto e ironico lancia un grido d'allarme, in chiave pop, sui mali dell'Occidente, che, attraverso l'arma seducente della pubblicità, strappa tradizioni locali per imporre le proprie, oltretutto non sempre salutari: il dado è divenuto l'elemento base della cucina del West Africa. Sono alcuni dei piccoli tesori artistici che la Biennale di Dak'Art, In e Off, ha svelato in questa edizione.

Tra gli altri lavori spiccano inoltre quelli del pittore-filosofo Yeanzi, che con il suo neo-impressionismo ambientalista produce soggetti "puntellati" usando come materiale da disegno sacchetti e buste di plastica usati. Yeanzi fa parte dell'entourage della Galleria di Cécile Fakhoury, così come Cheikh Ndiaye, che ha presentato l'installazione "Privatizzazione di uno spazio con il suo cielonella cornice di Afro Pixel, evento collaterale della Off, organizzato da Kër Thiossane. Ndiaye crea un nuovo luogo, dove potervisi rifugiare e sognare.

Fa parte della galleria Fakhoury anche il fotografo François-Xavier Gbré, che
ha esposto all'interno della Biennale In "Wo shi feizhou/Je suis africain", opera con la quale fa una semplice ma puntuale analisi sulla colonizzazione del linguaggio, calcando le tendenze della Rete. Linguaggio come sede di conquista e sottomissione di un popolo. In questo caso si tratta della Cina, sempre più presente nel tessuto economico africano.

Tra i lavori da segnalare di certo non possono mancare quelli di Soly Cissé, pittore della dimensione onirica, presentati nello studio di Mauro Petroni, ceramista e curatore della Off. Cissé mostra il suo mondo interiore, le sue paure individuali mettendo a confronto il sé e l'altro, esaltando la materia del subconscio. Ma anche la città ideale composta da elementi poveri dell'egiziano Youssef Limoud o la stanza della preghiera del nigeriano Victor Ehikhamenor.

E poi il video che anima i quadri del brasiliano Thiago Martins de Melo, che fa un'analisi cruda sui temi della violenza, dell'ambiente, della sessualità e dell'identità. Ed "Echo" del visual artist egiziano Moataz Nasr dove le parole di libertà, espresse dai personaggi di un film, proiettato sulla parete di una stanza dell'Antico Palazzo di Giustizia, vengono impugnate, in un video speculare nella parete a lato, da una giovane che parla davanti a una platea di clienti attoniti di un bar, sembrerebbe a Il Cairo.

Infine il mondo in bilico di Mbaye Babacar Diouf, che rapprensenta un po' la summa dell'anima africana: un popolo in costante equilibrio sugli squilibri politici, sociali ed economici prodotti dal colonialismo, ma anche da quello spirito di accettazione "imposto" da governi corrotti.

Nonostante le svariate difficoltà che potevano indebolirla per esempio nella cura dell'allestimento e nell'organizzazione o nella scelta di alcuni artisti di rappresentanza dei vari Paesi partecipanti, l'Esposizione ha rivelato le grandissime potenzialità di questo altare dell'arte contemporanea che deve essere sorretto e sospinto e che ha tutti i crismi per diventare un punto di riferimento internazionale.

E' un'occasione importantissima per il Senegal ma anche per tutto il West Africa, conosciuto dopo i fatti in Mali o in Burkina Faso per i soliti maledetti temi che legano il Continente nero allo sguardo dell'opinione pubblica. Un'occasione per divenire un nuovo centro propulsivo di cultura, una colononizzazione inversa, attraverso l'unica arma possibile di emancipazione che lo stesso presidente illuminato Senghor reclamava: comunione e bellezza.