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Springsteen, l'amore con San Siro si rinnova

Nuovo trionfo milanese per il Boss: quasi quattro ore di concerto tra gigionerie, rockʼnʼroll scatenato e momenti di grande intensità emotiva

Olycom

Giugno 1985. Per la precisione il 21. È nato quel giorno l'amore tutto particolare che lega Bruce Springsteen all'Italia ma soprattutto allo stadio di San Siro, un amore che nemmeno le beghe di qualche comitato di quartiere sono riuscite ad intaccare. E quasi trent'anni dopo il miracolo si è ripetuto, per la quinta volta. Quello di oggi è un Boss molto diverso rispetto ad allora, ma non certo perché sia invecchiato. L'energia con il passare degli anni sembra moltiplicarsi e la lunghezza dei concerti, anziché contrarsi, si dilata.

Anche questa volta, come l'anno scorso, sono state sforate le quattro ore, e quello che stupisce non è tanto la resistenza da maratoneta, ma l'abilità nel dosare la tensione in modo tale da portare cinquantamila persone tutte insieme allo sprint finale: un concerto così lungo potrebbe risultare estenuante per molti spettatori, e invece, ancora una volta, un intero stadio (gremito come non mai) ha ballato scatenato sull'infinito rock'n'roll finale di Twist & Shout e Shout.

È uno Springsteen diverso dal 1985 dicevamo. Il concerto di oggi è meno un puro evento rock e più un happening destinato alla consacrazione del mito e del suo rapporto, quasi fisico, con il pubblico: il Boss gigioneggia come non mai, quasi più spesso giù dal palco, a fare avanti e indietro cantando faccia a faccia con le prime file, che non sul palco stesso in mezzo alla E Street band. E Street band che, per inciso, in quanto tale non esiste più: persi Danny Federici e Clarence Clemons (commovente l'omaggio al Big Man su Tenth Avenue Freeze-Out), ciò che ne resta viene annacquato nel gruppo allargato che affolla il palco, tra sezioni fiati, coristi e violiniste, lasciando ai membri storici quasi un ruolo più di presenza e coreografico (nel quale Little Steven sembra trovarsi a meraviglia). Ma questo per il pubblico è soltanto un dettaglio irrilevante. Cantano e ballano tutti, dalla rockettara agée, che non c'è verso che riesca a muoversi a tempo ma si diverte come una matta, a post adolescenti che quando Born In The Usa veniva pubblicato non erano ancora nati. Ma tutti impazziscono quando, in segno di omaggio al concerto dell'85, Springsteen annuncia l'esecuzione integrale di quel disco, tutti i brani, uno di fila all'altro, da Born In The Usa a My Hometown, un colpo al cuore per chi quel giorno lì c'era e per quelli che ne hanno sentito solo parlare o hanno consumato la cassettina con il bootleg (Bruce Zirilli, uno dei più celebri del Boss).

A testimonianza del ruolo ormai debordante di istrione di Bruce, su Dancing In The Dark non viene fatta salire sul palco, come da tradizione, una fan delle prime file per ballare con lui, ma c'è una vera processione, di ragazzi e ragazze. Una di queste imbraccia anche una chitarra e canta qualche nota con lui. E poco dopo, su Waiting On a Sunny Day, è il turno di una bambina a essere presa in braccio e messa davanti a 50mila spettatori per cantare a cappella una strofa della canzone. E il concerto non è un semplice greatest hits: la gente balla e si esalta di fronte ai brani dell'ultimo album, Wrecking Ball, o di quelli, sempre recenti, della riscoperta folk, così come per una The River con inedita coda suonata con l'armonica o una Born To Run finalmente aderente alla versione originale, dopo anni di riarrangiamenti acustici e non.

Spettacolo e muscolarità, sudore e gioco: se questi sono gli elementi che spiccano, il concerto di Bruce non è un circo, un baraccone fine a se stesso. In alcuni momenti acustici la tensione emotiva è tale che Springsteen riesce ad ammutolire completamente un intero stadio, come all'inizio di Thunder Road, suonata in solitaria dopo aver congedato la band, ennesimo per chiudere alla perfezione per l'ennesima serata da ricordare.