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Italiani e lavoro, due su tre vogliono cambiarlo e lo scopo conta più dello stipendio

Il sondaggio di Fior di risorse 2023 “Abbiamo ancora voglia di lavorare?" ha analizzato la motivazione e le esperienze di oltre 2mila lavoratori

Italiani e lavoro, due su tre vogliono cambiarlo e lo scopo conta più dello stipendio - foto 1
Istockphoto

Presentato a Roma nell'ambito del festival "Nobilita" il sondaggio di Fior di risorse 2023 “Abbiamo ancora voglia di lavorare?" che ha analizzato la motivazione e le esperienze di oltre 2mila lavoratori italiani.

Nel primo sondaggio manageriale italiano sulle scelte e i sentimenti post pandemia, tre quarti degli italiani dicono di aver cambiato lavoro una o più volte negli ultimi dieci anni. Due italiani su tre vogliono cambiare lavoro o stanno per farlo e lo scopo, ormai, conta più della carriera.

Quello che emerge in maniera trasversale a tutte le categorie è un diffuso malcontento che meglio viene espresso nelle domande più specifiche riguardanti lo scopo, le retribuzioni e l’equilibrio fra vita personale e professionale.

 

La prima domanda era volta a indagare quanti cambi di lavoro sono avvenuti negli ultimi dieci anni, dato utile anche per capire se negli ultimi anni c’è stata una particolare accelerazione in considerazione dei grandi fenomeni emergenti (Big Quit e grandi dimissioni). Risulta piuttosto evidente che anche in Italia questi fenomeni hanno impattato non poco, se chi ha cambiato più di quattro volte è in identica percentuale rispetto a chi ha cambiato solo una volta, o due, o tre.

 

Viene da riflettere, da una parte, sul fatto che i lavoratori italiani sono tutt’altro che stanziali; dall’altra sulla capacità delle imprese nella relazione con i propri talenti, spesso tali solo sulla carta, ma non abbastanza talentuosi da essere trattenuti. Considerazione, questa, che trova rispondenza nell’intenzione di oltre la metà degli intervistati di cambiare lavoro: un terzo si ritiene disinteressato a un cambio e l’altro terzo sta già lasciando l’azienda per sua scelta o perché lasciato a casa.


Si arriva poi alle motivazioni. Chi decide di lasciare un lavoro riporta come causa primaria la scarsa realizzazione personale. Nelle aziende evidentemente non si lavora abbastanza per conoscere al meglio le aspirazioni dei propri collaboratori, non si prendono in considerazione le loro aspettative, e scarsi sono i piani di carriera. Nello scorso osservatorio questo elemento era già emerso, nella misura in cui gli intervistati avevano risposto di non essere al corrente dei job posting interni e che le loro aziende preferivano importare dall’esterno nuove competenze. Al secondo posto, fra le motivazioni per cui lasciare un’azienda, c’è l’impossibilità di dedicarsi alla vita privata, a pari merito con le relazioni con i colleghi e con i capi, con buona pace di chi ritiene che lo smart working infici sulla socialità.

 

Nel decidere che cosa è motivante per la propria professionalità, il fattore economico è al secondo posto. Al primo posto è stato risposto “lo scopo”: capire quale sia la direzione e il motivo per cui si persegue un obiettivo, cosa che non è così chiara come molte “vision e mission” vorrebbero. L’ultimo posto, votato dalla stragrande maggioranza dei partecipanti, riguarda la carriera. Un segnale già evidente da qualche anno; da quando le nuove generazioni hanno iniziato ad affacciarsi al mondo del lavoro rivelando disinteresse per titoli, biglietti da visita e benefit, per orientarsi invece ad avere più tempo per dedicarsi a progetti personali.

Italiani e lavoro, due su tre vogliono cambiarlo e lo scopo conta più dello stipendio - foto 2
Ufficio stampa

Alla richiesta di definire il lavoro con una parola, è emersa prima di tutto una concezione del lavoro legata alla sua incapacità di adeguarsi ai tempi. Ecco le parole più significative e ricorrenti: anacronistico (25), antico (7), antiquato (14), arcaico (4), arretrato (29), giurassico (2), immobile (7), ingessato (5), obsoleto (17), preistorico o primitivo (10), retrogrado (13), stagnante (13), stanco, stantio, statico (31), vecchio, vetusto, vintage (41). Tante le parole che riguardano l’organizzazione del lavoro: alienante (7), approssimativo (8), caos o caotico (17), disorganizzato o dispersivo (10), incerto (6), confusionario o confuso (31), impreparato o improvvisato (5), inadeguato o impreparato (17), incomprensibile (7), incompetente (9), frustrante (16), limitato o limitante (13), rigido (10), schizofrenico (14).

 

I sentimenti che ne scaturiscono: avvilente (8), deprimente (14), tossico o umiliante (21), demotivante o deludente (14), insoddisfacente (13), stressante (11). Alcune parole riguardano poi i valori: discriminante o discriminatorio (27), disuguale (5, iniquo e ingiusto (35, ipocrita (7), incoerente (11), non meritocratico (14). E infine la percezione di sicurezza e visione a lungo termine: precario o precarietà (34), sfruttamento (31), sottopagato o sottovalutato (17), svalutato, svilente, svuotato (17), giungla (9).

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