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Right to repair: riparare telefoni ed elettrodomestici fa bene all'ambiente

Se ogni smartphone buttato fosse utilizzato per un anno in più, il risparmio di anidride carbonica compenserebbe le emissioni di uno Stato come lʼIrlanda per 12 mesi

donna, cellulare
getty

Ridurre i rifiuti elettronici nel mondo: è questo lo scopo del team di Ugo Vallauri, piemontese di stanza in Inghilterra, che si batte perché venga rispettato il diritto a riparare. Spesso aggiustare un apparecchio che non funziona è infatti così costoso e difficile che si preferisce comprarne uno nuovo. I danni per l’ambiente sono però notevoli: ogni anno vengono prodotti 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. Vallauri e gli altri membri di The ReStart Project, il progetto da lui fondato 6 anni fa a Londra, si battono per l’approvazione, a livello europeo e nazionale, di leggi che rendano effettivo il “right to repair”.

Il risparmio, in termini di energia e emissioni, reso possibile dalla riparazione degli apparecchi elettronici è quantificabile?
Si possono fare molti esempi, prendiamo in considerazione gli smartphone. Nel 2018, ne sono stati prodotti 1,9 miliardi della durata media di 3 anni: se ciascuno di questi device fosse utilizzato per un anno in più, il risparmio di anidride carbonica compenserebbe le emissioni di un anno di un Paese come l’Irlanda. L’80% dell’impatto ambientale di uno smartphone avviene durante la fase di produzione, quindi consiste nelle emissioni rilasciate per realizzare i diversi materiali di cui è composto. La fase d’uso infatti ha un impatto ridotto, dato che si limita al consumo di energia necessaria per caricare la batteria. Se la durata passasse dai 3 ai 4 anni, grazie a interventi di riparazione, si ridurrebbe la domanda e di conseguenza l’impatto sull’ambiente.

Quali sono gli ostacoli alla riparazione?
In primo luogo i pezzi di ricambio sono molto costosi e non accessibili a tutti, ma solo ai riparatori professionisti. Sarebbe necessario rendere fruibili anche i manuali per le riparazioni, che permetterebbero di lavorare in modo più rapido ed efficace. I produttori dovrebbero poi progettare gli apparecchi elettronici in modo che siano facilmente smontabili e adatti a essere riparati, cosa che al momento avviene raramente. Ci battiamo quindi perché, a livello europeo e nazionale, siano elaborate leggi che permettano di superare queste difficoltà e rendano effettivo il diritto alla riparazione.

Avete già ottenuto dei risultati dal punto di vista legislativo?
Sì, a gennaio è stato approvato un Regolamento europeo, in vigore dal 2021, che stabilisce che per alcuni elettrodomestici i pezzi di ricambio siano disponibili per 7 anni a partire dal momento in cui il modello va fuori produzione. Gli apparecchi dovranno essere progettati in modo da consentire il ricambio agevole dei diversi componenti. Questa regolamentazione per noi però è solo l’inizio: include infatti lavatrici, lavastovigli, televisori e lampade. Restano esclusi molti oggetti di uso comune, come smartphone e aspirapolvere, ai quali secondo noi dovrebbe essere estesa questa legge. Un altro limite è il fatto che gran parte dei pezzi di ricambio e dei manuali per le riparazioni saranno disponibili solo per i riparatori professionisti e non per tutti. 

E’ questo l’obiettivo della campagna Repair EU che avete lanciato a Berlino durante il FixFest, il festival dei riparatori?
Sicuramente l’accesso ai pezzi di ricambio, ai manuali per la riparazione e la realizzazione di elettrodomestici pensati per essere riparati sono tra le nostre priorità. La campagna ha anche l’obiettivo di sostenere coloro che svolgono il lavoro di riparatore a livello professionale e mostrare le potenzialità di un’economia virtuosa del riuso, che potrebbe creare nuovi posti di lavoro. Un’altra richiesta all’Unione Europea è includere nella descrizione di un prodotto il “punteggio di riparabilità”, ovvero quantificare la possibilità di sostituire e aggiustare i componenti. In questo modo il consumatore potrebbe scegliere non solo in base alle prestazioni del device ma anche secondo questo importante parametro. Auspichiamo quindi delle scelte legislative che aprano nuove opportunità nel campo del “right to repair”.

Quali sono le altre iniziative promosse da The ReStart Project?
Promuoviamo i Restart Parties, degli eventi organizzati localmente in 15 Paesi, tra cui l’Italia. In queste occasioni una comunità di volontari ripara e insegna a riparare diversi tipi di apparecchi elettronici, dai computer alle sveglie, dalle stampanti ai frullatori. Secondo i dati che abbiamo a disposizione, oltre il 55% degli apparecchi portati a questi eventi è aggiustato al momento, nel 25% dei casi è necessario ordinare dei pezzi di ricambio e tornare dopo qualche giorno e solo il 20% degli oggetti non può essere riparato. L’obiettivo è principalmente educativo: questi volontari spiegano che riparare non solo è possibile ma è anche divertente, e soprattutto dovrebbe essere la prima opzione quando un oggetto non funziona più.

E’ necessario anche un cambiamento di mentalità per rendere efficace l’economia del riuso?
Nel nord del mondo assistiamo a una crescente voracità che spesso ci spinge a volere l'ultimo modello dei vari apparecchi senza essere coscienti del danno ambientale che provochiamo. Anni fa, lavorando per una Ong inglese in Kenya, mi sono occupato del riuso dei prodotti informatici. In questo contesto mi sono accorto che le persone sono più portate a riparare e riutilizzare i prodotti piuttosto che buttarli e comprarne di nuovi. A essere diversa non è solo la disponibilità economica ma soprattutto l’attitudine. Abbiamo molto da imparare da questo tipo di mentalità.