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Monicelli, la bontà del cinismo

"Bischerate", avrebbe detto, tutte bischerate quei titoloni che in queste ore lo stanno ricordando celebrando il suo addio a questa terra.

Mario Monicelli era fatto così, amava poco parlare, e bene, di quello che aveva fatto. Non era uno di quelli che si gonfiava il petto con le glorie passate e presenti. Era un uomo di fatti e di poche parole, e quando apriva bocca detestava farlo per il gusto di dire semplicemente qualcosa. Ripeteva che alla sua età non gli faceva paura la morte, ma temeva solo non poter più avere la forza di lavorare. E forse per questo ha deciso lui quand'era il momento di andarsene.

Ma le parole servono, eccome, adesso, per salutare uno dei più completi uomini di cinema che in oltre settant'anni di carriera (la sua prima regia è del 1937) è riuscito a raccontare il nostro Paese come pochi. Inventore della commedia all'italiana (pietra miliare "I soliti ignoti", anno 1958), "figlia" della grande stagione del neorealismo, Monicelli ha saputo cogliere, con grande umanità, tagliente ironia e una buona dose di cinismo, la quotidianità, senza cadere in inutili buonismi.

Dicono fosse cattivello, che non risparmiasse nessuno, uno di quelli che le cose le diceva in faccia. "Toscanaccio", diremmo con un aggettivo abusato (era viareggino, per la cronaca). Italianissimo, in realtà, al di là dei confini regionali. Certo, se pensiamo ad "Amici miei", alle zingarate e alle supercazzole, in quel film c'è riversata tutta la sua anima toscana, che si specchia nella goliardia dei cinque protagonisti, ai quali fa rivivere molti scherzi fatti in gioventù.

Ma Monicelli va oltre, la sua è una commedia "nazionale" ad ampio respiro, che segue una narrazione a tutto tondo, studia la società e la racconta servendosi dell'ironia dietro la quale si cela spesso un retrogusto amaro. Del resto, cos'è il comico se non il tragico visto di spalle?
Con una settantina di film all'attivo, ha diretto, tra gli altri, Totò, Mastroianni, Gassman, Sordi, Tognazzi, De Sica, Volontè. E ancora Magnani, Loren, Vitti, Cardinale, Muti, Sandrelli. E li ha diretti in storie semplici, popolari, immediate, che riuscivano a lasciare qualcosa, oltre a una sana risata.

Proprio la ricerca della semplicità era la sfida che affrontava in ogni suo film: scrivere storie per tutti, in cui tutti potessero trovare qualcosa, senza perdersi in labirinti di trame complesse e disarmoniche. "Guardie e ladri", "La grande guerra", "L'armata Brancaleone", "Romanzo popolare", "Un borghese piccolo piccolo", "Il marchese del Grillo" e "Speriamo che sia femmina", oltre a "I soliti ignoti" e ai due "Amici miei", sono quei film che non ci si stanca mai di guardare, dove amori, amicizie, virtù e miserie umane vengono rappresentati così come li viviamo o potremmo viverli ogni giorno.
La vita è il grande palcoscenico dove Monicelli ha mosso i suoi personaggi, con un occhio di riguardo nei confronti dei perdenti. Banale a dirsi, più difficile a realizzarsi senza, appunto, cadere nel banale.Perozzi, Mascetti, Melandri, Necchi, Sassaroli, e ancora Ferribbotte e Capannelle, Brancaleone e il Marchese del Grillo, sono diventati vere icone pop, fonti di inesauribili citazioni che fanno sempre il loro effetto.

In questi ultimi anni il regista viareggino non si è fermato. Continuava a lavorare, ha diretto l'ultimo film quattro anni fa, aveva altri progetti e, nelle sue ultime uscite, non aveva perso la sua vis polemica, scagliandosi contro un Paese che non fa abbastanza per il cinema e la cultura, sperando addirittura in una rivoluzione. Una provocazione, ma fino a un certo punto. Instancabile, è arrivato all'estremo sacrificio, pur di non vivere diversamente da come aveva fatto in questi 95 anni. Un disperato gesto di libertà che sconvolge ma che, forse, senza voler essere cinici come lui, non sorprende più di tanto.

Domenico Catagnano