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Benedetto, padre di molti popoli

Alle radici dell'identità europea

14 Feb 2006 - 10:33

E' in libreria in questi giorni il nuovo libro di Andrea Pamparana, vicedirettore del Tg5 e nostro collaboratore, Benedetto, padre di molti popoli, Ancora editrice. Una biografia di San Benedetto, patrono d'Europa e tra i pilastri delle radici culturali della nostra Europa, come sottolineato anche dal Presidente del Senato, Marcello Pera, che ha scritto la prefazione al libro di Pamparana.

Dall'introduzione di Marcello Pera: «Era nato da nobile famiglia nella regione di Norcia. Pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma dove era più facile attendere agli studi letterari. Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro, purtroppo, che giovani sbandati, rovinati per le strade del vizio… Abbandonati gli studi letterari, Benedetto decise di ritirarsi in luogo solitario… Giunti alla località chiamata Enfide… dovettero interrompere il viaggio; presero così dimora presso la chiesa di S. Pietro… Benedetto però non amava affatto le lodi del mondo… Si diresse verso una località solitaria e deserta chiamata Subiaco… Vi poté costruire dodici monasteri, a ciascuno dei quali prepose un Abate e destinò un gruppetto di dodici monaci… Il santo uomo aveva preso la decisione di cambiare dimora… Il paese di Cassino è situato sul fianco di un alto monte… C’era in cima un antichissimo tempio, dove la gente… compiva superstiziosi riti in onore di Apollo… Appena vi giunse, fece a pezzi l’idolo… e dove era il tempio di Apollo eresse un Oratorio in onore di S. Martino e dove era l’altare sostituì una cappella che dedicò a S. Giovanni Battista… Scrisse una regola per i monaci… Sei giorni prima della morte, si fece aprire la tomba… Fu sepolto nell’oratorio del Beato Giovanni Battista».

Questo – senza date, con quasi nessun riferimento storico, con scarni accenni al contesto politico, quasi fuori del tempo e dell’ambiente è pressoché tutto ciò che, dai Dialoghi di San Gregorio Magno, scritti, sulla base di testimonianze, nel 593-94, si sa sulla vita di San Benedetto da Norcia. Il resto sono prodigi, miracoli, aneddoti, discussioni, dialoghi, precetti, discorsi, compreso battute di spirito e qualche pettegolezzo, tutto con intenti più pedagogici e di edificazione spirituale che biografici e di cronaca. Giustamente è stato detto (Giorgio Falco) che, mancando altre fonti, qualunque biografia del Santo di Norcia non può essere che la millesima riedizione di quella di Papa Gregorio. Chi voglia cimentarsi nell’impresa deve metterci del suo.

Andrea Pamparana ce l’ha messo. Ha guardato più a fondo, volgendosi attorno alla storia e alle vicende dell’epoca. Ha riempito i tempi, trasformando spezzoni e frammenti in una sequenza. Ha viaggiato e osservato i luoghi, le strade, gli edifici, ricostruendoli a ritroso a partire da quelli attuali. E soprattutto, con lo sguardo acuto di un analista raffinato di anime, sentimenti, motivazioni, aspirazioni, progetti, ha fornito un ritratto completo dell’uomo. Nelle memorie di Gregorio Magno, San Benedetto predica, istruisce, conforta: è un Santo che si mostra ai fedeli come esempio e testimonianza. Sotto lo sguardo di Pamparana, Benedetto da Norcia è còlto nei suoi risvolti personali: è un uomo che vive la vita quotidiana e rivela la sua psicologia, mentre consuma la sua esistenza.

Questo di Pamparana è un ritratto vivente, penetrante, simpatetico, illuminante, intimo e corale, di San Benedetto. E un racconto attento, partecipe, godibile. L’esistenza di San Benedetto – nato fra il 480-90, all’incirca quando Teodorico a Ravenna comincia a regnare sull’Italia – è costellata di miracoli: il vaglio di coccio che va in frantumi e si ricompone, la lama caduta nell’acqua che rientra nel manico, il piccolo che cammina sulla superficie del fiume, il vino avvelenato, e tanti, tanti altri, minuziosamente riferiti da Gregorio. Ma ce n’è uno che Papa Gregorio non poteva conoscere. Ed è il più importante di tutti: il miracolo dell’Europa. Pamparana lo introduce così: «c’era un gran fervore, in quel tempo, a Subiaco e lungo il fiume. E non si trattava solo di costruire muri e tracciare fondamenta, ma anche costruire un movimento, dare un programma a quella nuova e feconda istituzione.

La società cristiana, in quei boschi a poca distanza da Roma, la sua capitale ecclesiastica e morale, stava subendo una audace e formidabile riforma». E poi: «Benedetto diede l’avvio ad una formidabile fioritura culturale. In un’epoca in cui le orde barbariche e la sanguinosa guerra tra Goti e Bizantini andava distruggendo le antiche tradizioni culturali romane, Benedetto ed i suoi monaci andarono contro corrente e di fatto misero le basi per la cultura dei secoli successivi». «Di fatto». Sì, ha ragione Pamparana, perché nell’opera di Benedetto non c’è alcun progetto politico voluto, né alcun disegno sociale è nei suoi piani. Quella conseguenza mirabile e grandiosa che segue dalle sue azioni – la nascita del’Europa civile e cristiana – è inintenzionale. E però non è casuale o accidentale, come non lo è la storia, che non è programmata o predeterminata e però ha uno svolgimento.Nel monastero o nell’abbazia, Benedetto inventa un modello di vita sociale, costruisce un microcosmo, un nucleo di società, che poi si irradia e si moltiplica. In questo senso, la sua celebre Regola è un codice di condotta personale per l’elevazione dell’anima, ma è anche il germe di un ordinamento politico, di una costituzione sociale, di un ordine morale e di costume civile.

La Regola prescrive tutto e nulla lascia al caso o alla circostanza o all’arbitrio. Si rivolge ai singoli monaci («obsculta, o fili, praecepta magistri»), eppure, basta scorrerla, porre attenzione ai personaggi, alla loro attività, al loro ambiente, per vedere come nasce il miracolo dell’Europa.L’abate. Egli è esempio spirituale, guida morale, maestro di vita, padre di famiglia. È servitore e padrone, allievo e docente, severo e umile, disponibile e rigoroso. È autoritario, ma non imperioso o arrogante. Deve «imporsi ai propri discepoli con un duplice insegnamento, mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo: in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai più tardi e grossolani». La comunità. Essa deve essere organizzata e ordinata, subordinata ma partecipe, ausiliaria ma attiva. «Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno».

«Nessun membro della comunità segua la volontà propria, né si azzardi a contestare sfacciatamente con l’abate, dentro o fuori del monastero». La condotta dei monaci. Essi non devono rispettare solo i comandamenti divini, ma anche precetti terrestri più minuti: ad esempio, «non amare di parlar molto, non dire parole leggere o ridicole, non ridere spesso e smodatamente». Il monaco non deve «essere superbo, non dedito al vino, né vorace, non dormiglione, né pigro; non mormoratore, né maldicente». Le virtù tipiche. Prima l’obbedienza: «appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio». Poi l’umiltà con i suoi dodici gradi, dal primo, «quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all’inferno», fino all’ultimo, «quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, in quanto durante l’Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell'orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi».

Infine, al culmine, la carità, che è l’umiltà in sé, per «il gusto della virtù». L’ambiente di preghiera edi lavoro. Nel monastero c’è tutto ciò che l’autarchia richiede: l’oratorio, la biblioteca, il mulino, il forno, la cucina, il refettorio, la lavanderia, la foresteria, il dormitorio per i monaci e quello dell’abate, il chiostro, le officine, il cimitero.La gerarchia. Sotto l’abate, quando è il caso, il priore, i decani, i monaci, i novizi, il cellerario, e i responsabili di ciascuna attività e funzione. La vita quotidiana. La veglia e il ritiro durante le varie stagioni, le preghiere, i riti, le letture, i canti, lo studio, il lavoro, i vestiti, il cibo, i servizi di cucina, di portineria, di guardaroba, l’igiene personale, l’abbigliamento, gli orari, i comportamenti, le punizioni, gli attrezzi, gli oggetti, gli ospiti da accogliere, i mendicanti da soccorrere. Tutto dettagliatamente scandito. Una comunità siffatta ricostruisce, in piccolo, tutto quello che, alla fine dell’impero romano, si stava perdendo o si era già perduto del tutto, e, al tempo stesso, costruisce, in grande, una nuova tradizione.

La comunità monastica è convento, famiglia, scuola, azienda economica, mercato, laboratorio, centro culturale. I monaci edificano il proprio ambiente spesso dalle rovine, si dedicano all’allevamento, costruiscono fattorie, bonificano, irrigano, piantano vivai, coltivano orti e campi, seminano, raccolgono, fabbricano attrezzi, costruiscono macchine per l’elevazione dell’acqua, il trasporto dei materali, l’aratura, la falegnameria, inventano farmaci, leggono, studiano, copiano manoscritti. Insomma, tramandano una cultura e ne inventano un’altra, intellettuale, civile, e morale. Prendete una comunità come questa, moltiplicatela per dodici e poi ancora per cento e per mille. Ecco che si compie il miracolo. Da Subiaco a Cassino a Farfa a Bobbio e poi altrove, a San Gallo, a Westminster, a Reichenau, in mezza Europa, dall’Italia all’Irlanda alla Germania alle Gallie, si espande la civiltà cristiana dei monaci. I barbari si convertono e si civilizzano, i popoli cambiano costumi, le arti progrediscono, le istituzioni si modificano. Ci furono sconfitte e devastazioni, seguìte da rinascite e riconquiste, e poi ancora da cadute e ricostruzioni. Profetizzò San Benedetto, secondo le parole di Gregorio: «Tutto questo monastero che io ho costruito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente sono destinate a finire preda dei barbari. A gran fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, siano risparmiate almeno le persone».

A breve, ebbe ragione: da lì a pochi decenni, nel 577, Montecassino fu distrutta per la prima volta dai Longobardi. Ma, a lungo termine, ebbe torto. Il progresso della civiltà si era messo in moto. Se le statistiche sono giuste, all’inizio del XIV secolo, i benedettini avevano dato alla Chiesa 24 papi, 200 cardinali, 7.000 arcivescovi, 15.000 vescovi. Tutto a partire da un giovane studente di Norcia deluso dalla Roma del suo tempo, che non percorse più di un fazzoletto di terra, fra Roma, Subiaco e Cassino. Tutto spontaneo, come un seme che genera un frutto e poi un grande albero. O come un piccolo sasso che trascina una valanga. Dopo le prime fondamenta gettate da Pietro e Paolo, i monaci benedettini fecero nascere l’Europa, le dettero, di propri o tramandati, un credo, un’educazione, dei costumi, una moralità, un’economia, un corpo di leggi, una scienza. Lasciarono il loro segno nell’ambiente, nelle arti, nelle città, nelle campagne. Insomma, risollevarono una civiltà perduta, la trasformarono, la plasmarono.

E dettero all’Europa un’identità. La nostra identità.Dovremmo ricordarcene. Oggi che questa identità è smarrita, confusa, incerta. Oggi che è minacciata da nuove insidie interne. Oggi che è a rischio dei nuovi barbari che, come i loro predecessori, usano l’arma del terrore per distruggerla. E oggi che siamo chiamati a riaffermarla, apprezzarla, difenderla. Quo nomine vis vocari? Si capisce perché in Conclave il cardinale Joseph Ratzinger nomen sibi imposuit Benedicti. «Abbiamo bisogno – aveva detto il cardinale pochi giorni prima proprio a Subiaco – di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli».Il miracolo era compiuto: dallo zelo bono quod debent monachi habere era nata la civiltà dell’Europa.

Andrea Pamparana
Benedetto, padre di molti popoli
Ancora Editrice

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