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Vendere i beni dello Stato? Un revival

Giovanni Goria, ministro del Tesoro della Dc, ha anticipato di 26 anni la coppia Monti-Grilli. E come finirà e fin troppo facile da prevedere...

Ansa

"Venderemo i beni dello Stato". Lo assicura una voce autorevole del governo. Mario Monti? Macché: Giovanni Goria. Correva l'anno 1986 e il giovane ministro del Tesoro della Dc assicurava: “C'è un piano per la cessione del patrimonio demaniale”. “L'elenco completo”, riportano le cronache dell'epoca, “comprende poligoni militari, basi navali, arsenali, ospedali, depositi,infrastrutture aeroportuali civili e militari, riserve naturali, opifici, saline, chiese, abbazie e parchi naturali”. Valore complessivo: 200mila miliardi delle vecchie lire (oltre 100 miliardi di euro).

Da allora sono passati 26 anni esatti molte cose sono cambiate, ma l'ideona per risolvere il problema del bilancio dello Stato è rimasta la stessa: “Venderemo i beni dello Stato”. Non male, no? Se non avessimo già sentito queste parole risuonare più delle campane di San Pietro, potremmo anche crederci. Il fatto è da 26 anni sentiamo parlare di dimissioni di massa, vendite di fari, caserme, montagne, ci allarmiamo per la cessione delle isole, ci preoccupiamo per la privatizzazione del Colosseo, e poi, arrivati, al dunque, scopriamo che nemmeno un mattone è stato ceduto. E che l''unica cosa che lo Stato riesce a vendere con qualche regolarità è un po' di fumo.

Le parole se ne vanno, i beni restano: il buon Goria, passato ad altro demanio, guarderà con un sorriso il suo sobrio imitatore di 26 anni dopo. Chissà se Grilli avrà più successo dell'ex dc. Nel 1986 infatti finì in nulla. In compenso, tre anni dopo un altro ministro del Tesoro democristiano tornò alla carica: “Con la prossima finanziaria metteremo all'asta terre e fabbricati dello Stato per 650mila miliardi”, assicurò Paolo Cirino Pomicino. Era il governo Andreotti VI. Ma come 650mila miliardi? I beni dello Stato non valevano 200mila miliardi? Come avesse fatto in tre anni il patrimonio dello Stato a triplicare il suo valore, è difficile dire ma nel frattempo l'oggetto era stato a lungo studiato da un'apposita commissione di indagine presieduta dal tecnico Sabino Cassese. Nulla di nuovo, sotto il sole: quando si vogliono confondere le carte si chiama un tecnico e si fa una commissione.

Da allora, in effetti, il tema della vendita degli immobili pubblici è stato rilanciato con incredibile regolarità. “Carceri e caserme, una bancarella da 8mila miliardi”, titola il Corriere della Sera il 2 aprile 1992. “”Carceri e cinema, immobili in saldo”, rilancia il 30 maggio 1998. “Dolomiti, isole e spiagge e palazzi: in vendita i tesori del demanio”, assicura la Stampa del 27 giugno 2010. In mezzo fiumi di preoccupazione: “Tra i beni da privatizzare anche le Tofane, emblema delle Dolomiti”, si legge nel dicembre 1992, con il sindaco di Cortina “scandalizzato”. “Venderanno anche l'Asinara, Procida e Caprera”, piangevano pochi giorni dopo gli ecologisti. “All'asta anche luoghi storici come la riserva reale di Boccadifalco a Palermo”, si lamentavano i siciliani. “Non toccate Palazzo Filippini a Vicenza”. “A rischio il Sacher di Nanni Moretti e l'idroscalo di Pasolini”.

“Giù le mani dalla spiaggia della Spigolatrice di Sapri e da quella manzoniana del Lago di Como”. Giù le mani? A rischio? Non toccate? E chi li tocca? E chi li ha mai toccati? Da 26 anni l'unica cosa che viene toccata, per la verità, è la nostra pazienza. “Voglio vendere i beni pubblici”, diceva nel 1998 il ministro dell'Ulivo Vincenzo Visco prima di confessare al Sole 24 Ore di non essere riuscito a vendere nemmeno una caserma. “E' incivile” non valorizzare un patrimonio da Paperon de' Paperoni disse nel 2002 il ministro del centrodestra Tremonti prima di iscriversi, involontariamente, alla lista degli incivili. “Venderemo il patrimonio pubblico”, assicurò nel 2008 Berlusconi a Porta a Porta. “Esiste la necessità di vendere il patrimonio immobiliare”, rilancio il suo avversario Veltroni. Risultato? Non se ne fece nulla. Un'altra volta. Così oggi Grilli può presentare un'idea vecchia come il cucu come se fosse un'idea nuova, magari pure geniale. Ci voleva il governo dei tecnici per ritirare fuori le stesse chiacchiere del governo Andreotti VI? E con quale risultato poi? A guardare bene questa breve storia della cessione (a parole) dei beni dello Stato, viene in mente uno dei tanti titoli inutilmente allarmistici pubblicati sui nostri giornali: “Lo Stato vende il patrimonio, è l'ora del Foro Italico”. Ma sicuro: quando si parla di vendita del patrimonio, è proprio l'ora del foro. Non il foro Italico che non è mai stato venduto per altro (come tutto il resto), ma il foro nel senso di buco. Nell'acqua, ovviamente.