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Storia di un'aborto-dipendente

Irene Vilar è una donna bellissima.

Quando passa per strada è raro che la gente non si volti a guardarla. Quando parla ha una dolcezza profonda. Difficile immaginare che questa 40enne portoricana, oggi mamma felice che stringe al petto le sue due figlie, abbia conosciuto lunghi anni di enormi sofferenze: 15 aborti tra i 17 e i 33 anni. Immolata sull'altare dell'amore per il suo professore di storia, Pedro Cuperman, un 50enne incapace di amare e che riteneva i figli come la fine del matrimonio ("i figli uccidono il desiderio" diceva), scelse di rinunciarvi per non perderlo.

E così, l'unica sua forma di ribellione fu di "dimenticare" di prendere la pillola anticoncezionale (simbolo dell'umiliazione culturale e familiare) e rimanere incinta. Ad ogni gravidanza lei si ribellava a lui. Ma per riuscire a rimanere aggrappata a quell'ancora di salvezza che vedeva in lui, s'imponeva di sbarazzarsi di quella stessa gravidanza. Si stabilì così un circolo vizioso: una vera e propria dipendenza. "Ogni volta che, puntuale, arrivava il ciclo, mi sentivo triste. Ogni volta che scoprivo di essere incinta ero presa dall'euforia e dalla disperazione".

Del resto la storia famigliare di Irene era destinata a segnarla ben da prima della sua nascita. Già il suo Paese, il Porto Rico, negli anni '60 e '70 venne utilizzato dagli Stati Uniti come laboratorio per la sperimentazione di nuove pillole abortive. Nel 1973, il 37 % delle donne portoricane in età riproduttiva - usate come cavie – era stato reso sterile in modo permanente. La nonna, Lolita Lébron, oggi 89enne, costretta a vendersi a 17 anni per pagare l'affitto fu un'icona patriottica: nel 1954 si gettò sulla scalinata del Campidoglio, sede del Congresso degli Stati Uniti, con una pistola e la bandiera del Partito nazionalista di Porto Rico nella borsa. Il che le valse 27 anni di carcere. La madre, Gladys Méndez, cresciuta con uno zio che abusava di lei, cercò di uscire dall'incubo col matrimonio a 15 anni. Ma rimase sempre una donna sottomessa. Divenne Valium-dipendente e, dopo diversi tentativi di suicidio, ci riuscì, gettandosi da un'auto in corsa con a bordo la figlia Irene, che aveva solo 8 anni. Per completare il quadro familiare: il padre della scrittrice era un alcolizzato e un incallito giocatore d'azzardo, due dei suoi tre fratelli erano tossicodipendenti e uno morì d'overdose.

"Scritto col mio sangue", ora pubblicato in italiano da Corbaccio, è il diario di un viaggio a lieto fine: la catarsi di una donna dalla violenza e dalla sottomissione, un viaggio conclusosi con un secondo matrimonio felice e due maternità finalmente volute.

Nell'intervista a Tgcom la scrittrice parla del suo libro e della sua vita. Leggi l'intevista nella pagina seguente.

Irene Vilar, perché ha scritto questo libro?
"Ho scritto questo libro perché pensavo che la mia storia di autodistruzione e di redenzione potesse essere accolta e comunque potesse rispecchiarsi nella storia di molte donne che non avevano il linguaggio adatto ad articolare, in maniera onesta e senza vergogna, i dubbi e le ansie che caratterizzano la fase riproduttiva di una donna e la sua crescita come tale".

Come è riuscita a uscire da questo, da lei definito "vergognoso periodo della mia vita"?
"
La vergogna non è altro che la mancanza di un linguaggio che ti consenta di comprendere, di provare compassione e di esercitare un'introspezione sulle tue azioni. La vergogna non è altro che un pensiero fondamentalista che agisce nella psiche. Come ho fatto a rompere questo meccanismo perverso? Ne sono uscita creando e imparando un nuovo linguaggio che mi consentisse di capire meglio. Qui mi ha aiutato molto la terapia psicologica che mi ha consentito di crearmi questo nuovo linguaggio".

Come si aspettava che sarebbe stato accolto questo libro, con questo shock? Lei ha aspettato a lungo prima di pubblicarlo, perché? Temeva di non essere capita?
"Non l'ho fatto per paura di non essere capita. L'ho fatto semplicemente perché ogni versione del mio libro era in qualche modo sbagliata, non sapevo cosa fosse che non funzionava, però c'era qualcosa che non andava bene. In un certo senso non riuscivo mai a creare quest'immagine completa. Lo scritto era sempre soltanto una descrizione delle mie disperazioni, delle mie angosce. E questo non avrebbe certamente dato risonanza alla vicenda e non avrebbe aiutato nessuno. E' stato soltanto dopo la nascita della mia prima figlia (di sottofondo si sente la voce di una bimba) che capii che questo libro doveva essere una sorta di lettera rivolta ad una giovane donna che si affaccia all'adolescenza, alla maturità sessuale. A lei che finalmente ha a sua disposizione un linguaggio per interpretare tutte queste cose. Volevo fare proprio questo: avevo creato questo linguaggio per me, personalmente, attraverso la terapia e volevo adesso farlo intellettualmente per creare un modello di introspezione disponibile a tutte le donne, con qualsiasi background culturale".

A proposito delle sue figlie (Loretta e Lolita di cinque e tre anni, n.d.r.) che cosa pensa di fare quando saranno cresciute? Racconterà loro la sua storia? Farà leggere loro questo libro? Come si è posta questo problema?
"Non so come questo avverrà. So solo quello che io desidero: desidero che prima o poi le mie figlie possano leggere questo libro per poter capire meglio la loro mamma nel profondo, nell'intimo. Cosa che raramente accade. Quindi, mi auguro che, leggendo questo libro, possano diventare più tolleranti, più compassionevoli nei confronti di se stesse e degli altri".

Venendo al rapporto con l'ex marito - che nel libro definisce il suo “master” che in inglese vuol dire sia “maestro” che “padrone” - come lo giudica oggi? Cosa è rimasto di quel rapporto?
"Guardo a quest'uomo con compassione: era anche lui un uomo che aveva a sua disposizione strumenti molto limitati, che in qualche modo è stato limitato dalla sua cultura, dal suo modo di essere cresciuto. Un uomo che non sapeva amare. Guardiamo questo rapporto tra una 17enne e un 51enne: è un rapporto di potere, è una storia inevitabile di oppressione, di un uomo che ha abusato del suo potere. Quindi c'è da chiedersi che cosa sono gli affetti in una situazione del genere. Che idea possiamo farci? E' veramente un rapporto paritetico fra due persone? Oggi lo vedo come un pupazzo che in quel momento si comportava come poteva in un momento di assoluta povertà emotiva. Entrambi allora eravamo emotivamente poveri".

Il suo libro è una storia di dolore di una persona diventata "aborto-dipendente". Lei si professa una femminista pro-choice. Perché? Ci si aspetterebbe da una persona che ha vissuto questo tipo di esperienza che, per reazione, diventi “pro-life"...
"Non capisco perché ci si dovrebbe aspettare che dopo le mie vicende dovessi diventare una sostenitrice del movimento "pro-life" (antiabortista). Posso dirle però perché sono una sostenitrice del movimento "pro-choice" (femminista abortista): perché significa essere una persona che pensa liberamente, una persona dei nostri tempi, con una formazione intellettuale e umanistica. Non potrei essere diversamente. Quindi essere "pro-choice" è normale. E' un'estensione naturale di questa struttura intellettuale basata sul rispetto dei diritti delle donne".

Elisabetta Carli

Irene Vilar, "Scritto col mio sangue - La storia di una donna che non sapeva essere madre", Corbaccio, pag. 260, 16 euro