Carla Reschia su La Stampa
La Svizzera ha deciso di disfarsi di centinaia di milioni di dollari «sporchi» che furono depositati in conti segreti nelle sue banche da dittatori di tutto il mondo. Già mezzo miliardo di dollari è stato destinato ad aiuti umanitari. Se ne è favoleggiato, sono stati oggetto di ironia, di sarcasmo, di satira: nei forzieri delle banche svizzere si è sempre sospettato finisse di tutto. Come spesso ci è finito: bipartisan, senza stare a sottilizzare su provenienza, colore politico, liceità. Ginevra, Lugano, Zurigo, sono i nomi che ricorrono quando si tratta di denaro «sporco»: si tratti dei conti segreti di Arafat, o di Saddam Hussein, dei finanziamenti per l'11 settembre o dei capitali stornati da qualche abile finanziere nostrano in odore di scandalo.
Ora una serie di provvedimenti ribalta i luoghi comuni e promette di rimettere in circolo un bel po' di denaro: 1,6 miliardi di dollari, per la precisione. A tanto ammonta il capitale messo sotto sequestro a vario titolo su diversi conti aperti in Svizzera perché proveniente da fondi sospetti, o meglio, palesemente «colpevoli». È una svolta che il sistema giudiziario elvetico rivendica con fierezza: «Perché - sottolinea un magistrato - siamo fra i primi Paesi a porci il problema di che fare dei conti segreti dei dittatori. Altre piazze finanziarie, Londra, ad esempio, continuano a far finta di nulla». Pagato pegno all'orgoglio nazionale resta l'elenco, cospicuo, di dittatori, presidenti, regnanti e «uomini forti», in gergo Pep - persone esposte politicamente - che nel tempo hanno premiato la proverbiale discrezione elvetica.
Dal re dei re etiope, Hailè Selassie, al fu scia di Persia, al compagno Ceausescu, fino al povero Noriega, prima esaltato e poi affondato dalle mutevoli politiche Usa in America Latina. Passando per l'Africa con Mobutu e il meno noto ma non meno imbroglione Mussa Traorè, facendo tappa nel Pakistan di Benazir Bhutto, senza dimenticare l'Argentina di Menem e la Russia di Eltsin. Tanto per citarne alcuni. 0ra, in parte si tratta di acqua davvero passata: i capitali di più antica stratificazione si possono solo immaginare o rimpiangere perché l'unica legge che regolava la materia era il vecchio detto latino che recita «pecunia non olet». Ma poi, nella 'seconda metà degli Anni '90, c'è stato l'affaire dei fondi ebraici, gli averi strappati alle vittime della Shoah, finiti in Svizzera e lì rimasti, intoccabili per i legittimi eredi: troppo, anche in nome della discrezione. E la Svizzera ha cominciato a cercare di restaurare la sua malconcia immagine internazionale, di mostrarsi «sensibile».
A porsi il problema. A Ginevra il lavoro dei procuratori impegnati a venire a capo dei vari disastri internazionali, Bernard Bertossa e Carla Del Ponte, ha smosso le acque e allertato i diversi stati coinvolti. Nuovi governi, ansiosi di dimostrarsi meno corrotti di chi li aveva preceduti, hanno chiesto indietro i loro soldi. Così, a partire dai primi mesi del 2005, i forzieri svizzeri si sono aperti e i soldi hanno ricominciato a circolare. Creando problemi di gestione non banali perché già 500 milioni di dollari sono tornati a casa, in un modo 0 nell'altro, ma molto resta ancora bloccato.
Il problema è appunto come, `e soprattutto a chi renderli. Con quali garanzie, in quale forma. Una sfida che la creatività bancaria ha risolto facendo spesso ricorso al tramite delle ong o all'impegno del reinvestimento in progetti umanitari. Incontrando anche così mille ostacoli, dalla approssimazione burocratica dei Paesi destinatari, alla difficoltà di dimostrare con una sentenza l'illiceità della provenienza, alla difficoltà a orientarsi in dossier dalle mille ramificazioni e dagli infiniti prestanome. «Insomma - commentano i maligni - alla fine il messaggio è: continuate pure a depositare da noi i vostri soldi. Alla peggio, se tutto va storto, rischiate di finanziare davvero dei progetti di sviluppo per il vostro Paese».