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"Quindicina" e timore del tubista

Così si viveva nelle case chiuse

Vietato servire cibi e bevande, vietato suonare e cantare, vietato aprire le persiane, le case di tolleranza erano state concepite dalle due leggi che le avevano istituite prima e riorganizzate poi - nel 1860 e nel 1888 - come luoghi di "passaggio" del sesso a pagamento: entrare, consumare, uscire.

Anche per questo, probabilmente, nell'immaginario collettivo sono sempre rimaste luoghi quasi mitici, dove si respirava sempre e comunque un'atmosfera di peccaminosa lussuria. Ovviamente per questo erano nate e si erano sviluppate, ma il mito si fondava anche sull'alone di mistero che circondava questi luoghi. Dove, invece, la vita era regolata da ritmi rigidi e sempre uguali, e dove circolavano personaggi di ogni genere, ognuno indicato con il proprio soprannome.

C'erano i "flanellisti", cioè coloro che andavano nei bordelli solo per guardarsi in giro, per respirare l'atmosfera, per guardare le ragazze di sottecchi, per sentirsi parte di un mondo che, il più delle volte, poteva solo sognare e non permettersi. Ma c'era anche chi usava il salone della maison come fosse una biblioteca: molto spesso, infatti, gli universitari andavano proprio lì per preparare in pace e tranquillità gli esami, e i militari per garantirsi un posto caldo dove stare seduti. E una regola non scritta dei postriboli era che, nonostante i flanellisti abituali non fossero ben visti dalla maitresse, dovevano essere trattati con ogni riguardo.

Poi c'erano quelli che andavano al bordello solo per parlare con una ragazza: i "parlanti", che con la prostituta di turno sfogavano i propri sentimenti repressi, e i "teneroni", che cercavano orecchie sulle quali riversare la storia delle proprie disgrazie. E poi i "ciceri", che invece miravano a far parlare le ragazze, a sapere la loro storia, a capire perché avevano scelto di far quel mestiere. Tutti "tipi" particolarmente disprezzati, questi: nelle case di tolleranza, infatti, per ottenere il rispetto delle ragazze bisognava dimostrare la propria virilità, e quindi consumare invece di blaterare.

Naturalmente avevano un soprannome anche coloro che nelle case chiuse andavano non per fare sesso con una ragazza ma per dar sfogo alle proprie devianze: i "guardoni", che affittavano un buco dal quale spiare ciò che accadeva in una stanza, e i "sottomarini", che compravano il diritto di stendersi sotto il letto di una delle ragazze per assistere all'amplesso.

Un soprannome aveva anche il medico inviato periodicamente dalle autorità per la visita ginecologica: veniva chiamato "tubista" (il perché è facilmente intuibile) ed era particolarmente temuto. Quando trovava una ragazza infetta da una malattia venerea, infatti, il medico aveva l'obbligo di comunicarlo sia alla tenutaria sia alle autorità, e la malcapitata veniva sospesa a tempo indeterminato dal "servizio". Ovviamente senza stipendio, perché le ragazze, nei bordelli,lavoravano a cottimo: tante prestazioni, tanti soldi ricevuti dalla maitresse, che generalmente tratteneva il 50% per coprire le spese di mantenimento e di struttura.

Il rito prevedeva che gli uomini, giunti nel salone, guardassero per un po' le ragazze, poi scegliessero quella che li attirava di più e a quel punto passassero alla cassa per comprare la "marchetta", il gettone che dava diritto ad ottenere la prestazione. Dopo aver scelto, il cliente consegnava la marchetta alla prostituta, che lo portava in camera per consumare.

Una "pensionante", mediamente, riusciva a fare 30-40 marchette al giorno: le ragazze, insomma, guadagnavano piuttosto bene. Nel 1888, anno della revisione delle tariffe con la legge Crispi, ad esempio, una marchetta costava 1 lira. Significa che ogni giorno una ragazza poteva guadagnare anche 40 lire, e pur dovendone dare metà alla tenutaria della casa gliene restavano pur sempre 20: un patrimonio, rispetto alle 3 lire di stipendio giornaliero di un operaio.

Le ragazze, che avevano tutte un nome d'arte e facevano carriera non tanto grazie alla prestanza fisica quanto alle capacità professionali, potevano restare in un postribolo al massimo per quindici giorni, dopodiché dovevano trovarsi una sistemazione in un postribolo di un'altra città: ogni "scaglione" di pensionanti veniva per questo chiamato "quindicina", e i frequentatori abituali delle case chiuse attendevano con ansia l'arrivo del nuovo "turno", sperando che tra le ragazze ci fosse anche quella in particolare sulla quale erano giunte voci favorevoli provenienti da altre città d'Italia. Si trattava di un metodo per evitare che i clienti si innamorassero delle ragazze frequentandole troppo a lungo, ma anche per far offire in tutte le città d'Italia le grazie di ogni "pensionante". Ufficialmente ogni ragazza doveva arrangiarsi per trovare la prossima casa di tolleranza nella quale soggiornare per i successivi 15 giorni; in realtà esisteva una figura, chiamata "collocatore", che a tutti gli effetti era il "manager" delle singole ragazze: un antesignano del moderno protettore, insomma, al quale spettava l'incombenza di far fruttare al massimo le doti della sua protetta. E si trattava di un mercato particolarmente fiorente: negli ultimi anni di vita delle case chiuse, bastava collocare una sola ragazza per poter vivere di rendita.

Luca Rigamondi