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"Padania": il ritorno rabbioso degli Afterhours

L'intervista di TgCom24 al leader del gruppo, Manuel Agnelli

Maurizio Camagna

Non fanno i cartomanti, non si dilettano a leggere i fondi delle tazzine di caffè.

Eppure il nuovo album degli

Afterhours

s'intitola "

Padania

". Lo scandalo Lega non c'entra. Il discorso parte da più lontano, dalla potenza del "Paese è reale" che come una tempesta rigenerante aveva scosso il torpore del Festival di Sanremo 4 anni fa. Per saperne di più abbiamo raggiunto al telefono

Manuel Agnelli

.

“Padania” è stato un disco molto atteso, finalmente è uscito e lo state già suonando in giro. Siete soddisfatti delle reazioni e del risultato dal vivo?


Il tour vero e proprio partirà tra un po', con la prima data di Roma il 7 giugno. Per ora stiamo facendo dei mini-live un po' in tutta Italia. Sono occasioni divertenti anche per incontrare il nostro pubblico. Nulla a che vedere col grosso concerto, eppure la quantità e la passione delle persone che vengono ad ascoltarci è impressionante e abbiamo la sensazione che il disco sia già arrivato, che abbia avuto un forte impatto dal punto di vista emozionale e questa è la cosa più importante.

Del titolo profetico e inconsapevolmente beffardo hai già raccontato. Com'è cambiata però la lettura di “Padania” dopo lo scandalo Lega?


Il titolo esisteva già da più di un anno e ha avuto un'indiscutibile forza premonitrice. Il disco parla di una tragedia incombente evocata già dall'immagine di copertina con un cancello che si spalanca su un niente fatto di grigio e neve e freddo e un iceberg che incombe minaccioso sul retro. Parla di una tempesta in arrivo. Non era difficile prevedere che la situazione sarebbe collassata e il disco parla anche di questo. Che sia uscito in contemporanea con la bufera che ha travolto Bossi e i suoi è stata una coincidenza pazzesca che certamente ci ha dato qualcosa in più, ci ha permesso di rafforzare i concetti. Non parliamo di aria fritta, ma parliamo dell'oggi, Lega compresa. “Padania” parla dei nostri tempi, di quello che vediamo intorno a noi, del fastidio e del ribrezzo che sentiamo sulla pelle anche con implicazioni regionali e politiche. Era chiaro che prima o poi sarebbe successo, ma questa è la bellezza di fare dei dischi che parlano di cose in maniera sottile, senza slogan. C'è una magia intorno a questo tipo di album: sono attuali ovunque li piazzi. Ecco diciamo che ci siamo fermati poco prima che scoppiasse la tempesta, ma ora che è esplosa porterà con sé altre cadute.

In “Costruire per distruggere” canti “Sarà bellissimo fare parte della gente senza appartenere a niente, neanche a Dio”. Sembra quasi un elogio dell'anti-politica di cui tanto si discute in questi giorni…


La canzone racconta del desiderio di libertà. Libertà dalle regole, dal dovere e dai doveri che la collettività t'impone. Ogni società vive nel presente e il presente ha delle leggi che determinano le nostre scelte e la nostra felicità. Negli ultimi anni ci siamo dovuti accontentare della mediocrità. Il pezzo racconta di una liberazione resa possibile soltanto dalla caduta, dal fallimento nella caduta. Non è nichilismo, è rinascita. Pensiamo alla caduta del sistema discografico tradizionale: se un mondo si è sbriciolato da una parte, dall'altra si è sprigionata una libertà intellettuale e artistica che negli ultimi 30 anni era sparita.

Non a caso, per la prima volta siete totalmente indipendenti, dalla produzione alla distribuzione…


Un gruppo come noi ha i mezzi per poter controllare ogni tappa del processo creativo-produttivo in maniera totalmente sciolta. Ci siamo rivolti ai migliori professionisti per tutte le fasi della realizzazione di un album. Ci siamo garantiti così agilità e rapidità. Musicalmente abbiamo sempre fatto quello che volevamo, ma, senza i filtri delle major, i tempi ora si sono ridotti perché abbiamo superato i vincoli della burocrazia. Ora, per concretizzare un'idea, ci mettiamo 3 ore anziché 3 mesi.

C'è una tensione continua nell'album. Il senso d'inguaribile frustrazione si scontra col desiderio affamato di cambiamento. Il suono dell'accendino che non funziona all'inizio della splendida “Padania” ne è la sintesi. E' un dualismo che provi sulla tua pelle?


Lo provo ancora, sì (sospira, n.d.r.). L'Italia è frustrante per chi ha un progetto: infanga, rallenta, sfianca. La gente non fa fatica a riconoscersi in questo stato d'animo, so che non sono da solo. La musica, certo, mi ha aiutato e mi aiuta tuttora, è un'enorme fortuna perché almeno interiormente ti dà illusione di essere meno prigioniero. Ti senti non solo libero di pensare, ma sei anche legittimato nel tuo modo di pensare. L'artista ha poi un compito sociale che è quello di far informazione, di portare in giro il panico, l'odio, la felicità e la speranza. Sono tutte emozioni che aiutano a confortarsi e nel riconoscimento sentirsi poi legittimati a pensare.


Nel pezzo più arrabbiato cioè “Io so chi sono” la chiusa è “Terra meravigliosa, brutto Paese”. Quante volte hai sentito la tentazione di andartene? E cosa ti ha spinto poi a rimanere?


Gli eventi, direi… E' successo che qui, 25 anni fa, fare certe cose era rivoluzionario e così quando la scena rock ha cominciato a cambiare noi ne eravamo parte. La tentazione di andare fuori c'era, ma all'estero avremmo fatto il solito gruppo che magari rischiava di non avere un'identità definita. Poi diciamo anche che le cose ci sono andate bene. Siamo qua e veniamo da qua e possiamo fare qualcosa per la nostra gente, alla fine ha un senso che noi ci restiamo. Periodicamente poi andiamo in giro per il mondo a suonare, negli Stati Uniti, soprattutto. Ma qui sentiamo di avere un piccolo megafono che può diventare un punto di riferimento per chi si mette in ascolto ed è un richiamo al senso di responsabilità per noi che ci parliamo dentro.

Dal punto di vista musicale si sente che vi siete divertiti a sperimentare nuove sonorità insieme senza alcun auto-compiacimento. Sorprende il tuo lavoro sulla voce, specie in “Metamorfosi”. Quanto coraggio c'è voluto?


Siamo talmente vecchi che non abbiamo dovuto forzarci o spingerci in alcun modo. Non volevo sedermi sulle cose già fatte e qui ci sono accenni di strade che vorrei sviluppare anche più avanti, ma tutto è stato fatto al servizio del disco. Per la prima volta non ci siamo trovati insieme in sala prove, ma ognuno si presentava con degli spunti, delle idee che aveva suonato e registrato in autonomia e che magari non avrebbe avuto il coraggio di provare davanti agli altri. Diciamo che il 70% di queste “sperimentazioni” poi non è finito sul disco. E' un metodo che ci ha dato una leggerezza che non sentivamo forse da tanto tempo. Per quello che riguarda il mio lavoro sulla voce mi sono ispirato ai miei ultimi ascolti, da Captain Beefheart, a Robert Johnson, agli Einstürzende Neubauten alla grandissima Diamanda Galas. Se non ci avessi provato sarebbero state tutte influenze in qualche modo frustrate. Ho scelto di rielaborarle a modo mio con la mia voce di adesso, con lo spirito di un ragazzino che si diverte a fare un bel gioco.


Non c'è la cupezza del passato, in ogni caso, una speranza che scaturisce anche solo dalla capacità di indignarsi esiste ancora. Musicalmente poi non vi trovo assolutamente apocalittici così come vi ha descritto qualcuno.


No! Infatti, diciamolo! E' un disco frizzante con una rabbia reattiva, molto lontano dai suoni scuri di “Quello che non c'è” o di “Ballate per piccole iene”.

Farete un concerto all'Aquila insieme al Teatro degli Orrori il prossimo 19 maggio: uno spettacolo che regalerete alla città distrutta dal terremoto. Dopo anni di silenzio e calma ora in Italia addirittura due gruppi rock che fanno politica attraverso la musica. Non è un caso…


C'è bisogno di una presa di posizione sociale che il rock può naturalmente interpretare. Le piazze stanno tornando naturalmente a riempirsi e a riempirle è chi sente una mancanza forte e non ha più appigli per capire la realtà. L'impegno è fisico e concreto per gli artisti e per il pubblico. Internet ci ha dato solo l'illusione di una democrazia condivisa ma alla lunga si è rivelata anche una dittatura perché ti costringe in casa, davanti a un computer. C'è bisogno d'altro e l'esempio dell'occupazione del Teatro Valle di Roma e del Teatro Coppola a Catania ne sono una fantastica dimostrazione. Sono sicuro che siamo vicini a una svolta e il primo segnale forte, del resto, lo abbiamo già avuto l'anno scorso in piazza Duca d'Aosta, a Milano in occasione del concerto organizzato per la campagna elettorale di Pisapia. Nemmeno noi ci aspettavamo una partecipazione così grande e spontanea, ma è successo. La gente è scesa in piazza, naturalmente. E l'attuale amministrazione milanese riconosce che quella sera sia stata fondamentale. Perché ha inciso sul voto.

Avete pubblicato dieci album e scritto brani che sono la vostra storia e la storia di chi vi ascolta da 20 anni. Quanto spazio riserverete nei live ai pezzi del passato?


Non è saggio suonare solo il nuovo. Ti perdi la comunicazione della tensione di cui è fatto il rock. E' chiaro che avremmo voglia di interpretare solo l'ultimo album, ma è più divertente mescolare, magari con una certa coerenza mettendo in scaletta pezzi che sono in linea con “Padania” come “Sulle labbra” o “Quello che non c'è”. Sarà una selezione di brani coerente ma non intransigente perché vogliamo divertirci.

Tra le tue passioni c'è anche il calcio, ma forse è meglio non parlare di Inter…


Noooo! (ride, n.d.r.), proprio no! Diciamo che ci siamo presi un anno sabbatico!