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Quella Autosole che sbanda un po' in curva

TELEBESTIARIO di Francesco Specchia

Specchia Francesco
ufficio-stampa

Il paesaggio intorno era solo un fuggevole diversivo. Otto ore strizzato tra due fratellini insopprimibili, cotto dentro la prigione d'acciaio rovente, una Lancia Fulvia senz'aria condizionata; e il portapacchi carico; e i finestrini spalancati; e papà e mamma, davanti, intenti a strangolare l'autoradio; e il cofano che ingoiava l'asfalto, verso il mare.

Dell'A1, della mitica Autostrada del Sole, "la più importante opera ingegneristica d'Italia" che unì, negli anni del boom, Milano a Napoli, io ho sempre in testa i miei primi ricordi infantili. Quella lingua d'asfalto - per me, come per molti - era un cammino di Santiago, copriva una sorta di percorso animistico. Sicché, alla visione di "La strada dritta" (Raiuno, lunedì e martedì, prime time), la miniserie di Carmine Elia che omaggia i cinquant'anni della nostra migliore infrastruttura, mi sono affiorati due pensieri. Anzi, tre.

Il primo è di carattere tecnico. La fiction parte da una buona idea con buoni attori (Ennio Fantastichini nei panni del determinatissimo ingegner Fedele Cova è bravissimo, Vittoria Puccini regge bene, Anita Caprioli meglio), ma si perde nella sceneggiatura zoppa e vischiosa, più adatta a una Salerno-Reggio Calabria. Tecnici che "credono nelle favole", "burocrati e perditempo" inamovibili nella parte dei cattivi, il feeling amoroso tra l'architetta e l'ingegnere, il soccorso eroico dell'operaio amico ed ex commilitone: tutto qui, attingendo alla realtà romanzata, viene raccontato senza pathos. E' come se gli sceneggiatori fossero pagati a peso, senza scavo, senza occhio al particolare (e, oddio, sempre la solita storia: possibile che i bambini milanesi debbano parlare con l'accento romanesco?). E tu ti chiedi se Rai Fiction non possa davvero produrre script più brillanti.

Poi, però affiora il secondo pensiero: l'idea empatica della narrazione. La quale, via via che scorrono le scene, le ruspe al lavoro, il cemento mescolato al sudore, è in grado di suscitare, comunque, emozione. Per il semplice fatto di narrare di un miracolo italiano in un momento storico in cui di miracoli sentiamo la forte mancanza, anche una fiction che profuma d'ottimismo e volontà può essere un propellente etico. E qui il terzo pensiero. Dai film su Olivetti a Mattei a Borghi, la Rai insiste nell'agiografia di un grande passato. Benissimo. Ma non sarebbe ora di diversificare, chessò, buttarsi dagli anni 80 in su...?