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Coppi, un avvocato solo al comando

TELEBESTIARIO di Francesco Specchia

Specchia Francesco
ufficio-stampa

Un uomo solo al comando pedala sul crinale della redenzione di Silvio B. Il suo nome è Coppi. Franco Coppi. "Oltre le più rosee previsioni". Così ha commentato, ossessivamente ripreso dai telegiornali e dal web – un loop straniante - l'assoluzione dall'accusa più odiosa e dal processo più mediatico, il penalista romano, che praticamente ha vinto da solo, scardinando un impianto accusatorio che pareva granitico.

Coppi ha fatto del processo Ruby un caso di scuola per i suoi studenti "paradigmatico di una condotta che non è reato". Tecnicamente ha messo in discussione il capo di imputazione di concussione per costrizione. Non c'è costrizione e non c'è neanche "induzione" alla concussione - è la sua tesi - altrimenti il capo degli Uffici Ostuni avrebbe dovuto ottenere vantaggi ed essere indagato pure lui. Non c'è la prova dell'atto sessuale su minorenne. E non c'è il dolo di Berlusconi.

Ora, non stiamo qui a scoprire quanto il freddo professor Coppi sia un mostro di strategia, dotato di una capacità scientifica, quasi robotica di valutare i fatti esclusivamente nella loro cornice legale. Anzi, rispetto ad altre famose difese (Andreotti, Antonio Fazio, la vedova Calipari, Vito Miceli per il golpe Borghese, De Gennaro, ecc...), questa del caso Ruby era, sulla carta, abbastanza agevole per un penalista medio. Che non sia Niccolò Ghedini. Non perché Ghedini non sia in grado di leggere le carte e scrivere gli atti. Ma perché le legge e li scrive a voce alta, col pregiudizio ideologico, con l'altezzosità dell'uomo di partito al servizio del capo di partito che l'ha fatto eleggere e da cui non si possa dissentire. Ma il dissenso - se basato sul buon senso - fra avvocato e assistito è spesso alla base di una strategia vincente.

Duole dirlo, ma Ghedini e lo strascico di pandettisti di cui Silvio Berlusconi s'è spesso circondato hanno dimenticato la lezione di Calamandrei sull'avvocatura intesa né come gioco da circo, né come conferenza da salotto. "La giustizia è una cosa seria", diceva Calamandrei. E l'avvocato utile - continuava - è quello "che parla lo stretto necessario, che scrive chiaro e conciso, che non ingombra l'udienza con la sua invadente personalità, che non annoia i giudici con la sua prolissità e non li mette in sospetto con la sua sottigliezza...". L'esatto contrario di quel che l'opinione pubblica s'aspetta da un principe del foro. Ghedini ha arroventato - volontariamente o no, non importa - il clima; non ha zittito il capo quando trascendeva indicando i giudici come una metastasi o le sentenze di condanna come prove di "colpo di Stato". Ghedini ha, soprattutto, accavallato il suo ruolo di legale con quello di parlamentare e di factotum giuridico, ingenerando nell'opinione pubblica e, soprattutto, nei giudici, la percezione d'essere un dipendente. Ma non è l'avvocato che deve dipendere dal cliente, per definizione teso alla dolorosa ricerca di un punto d'appoggio. Semmai è il contrario.

Coppi, da ex pittore paesaggista di discreto talento, guarda all'insieme. Deve la sua fama ad un'austerità assoluta che esercita prima di tutto su se stesso. Non ha mai frequentato Arcore se non per motivi di lavoro. Non sopporta le cene fuori sede, soprattutto quelle eleganti. Ha minacciato di mollare il colpo quando i toni si sono alzati contro le sue indicazioni, e i falchi berlusconiani - che non ne volevano il bene - trascinavano Silvio sull'attacco politico. Certo, il clima, rispetto a quando l'ex Cav era premier è cambiato, e c'è di mezzo un patto del Nazareno che pare invocare miracoli. Ma per oggi onore a Coppi, il grande passista...