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Hilal, il piccolo kamikaze ribelle salvo grazie al Corano

“Io so chi è un buon musulmano, non sarei mai stato un vero talebano: per questo avevano deciso che ero utile solo come bomba umana"

"Stavo dormendo, degli uomini con il volto coperto sono entrati in moschea.

Mi hanno svegliato e spinto verso la porta. L'imam ha provato a mettersi fra noi ma è stato picchiato con un kalashnikov. Mi hanno bendato e caricato in macchina". Inizia così la storia di Hilal Hamidi, ex kamikaze designato, dopo essere stato rapito dai talebani a 12 anni e oggi 21enne pasticciere a Roma. Una storia con un finale diverso rispetto a quella vista in Turchia, dove un bambino si è fatto esplodere a un ricevimento di nozze facendo oltre 50 morti, e da quella avvenuta a Kirkuk, in Iraq, dove un ragazzino è stato fermato dai poliziotti appena prima di azionare la sua cintura esplosiva. "Sono salvo - ha raccontato a Tgcom24 - perché non ho mai creduto alle loro parole: io ho sempre saputo cos'è e chi è un buon musulmano. E no, non è quello che volevano che fossi: uno che uccide".

"Quando mi hanno preso ho capito subito che qualcuno aveva fatto una soffiata. La mia famiglia era benestante, mio padre lavorava per gli americani e per questo un giorno è stato preso e non è mai più tornato a casa. Il mio destino, in qualche modo, era già segnato: sapevano che anch'io non mi sarei schierato con i talebani. Da subito era chiaro che per loro potevo essere solo una bomba umana".

C'erano altri bambini con te?
"Sono stato rapito da solo. Poi mi hanno portato in un accampamento dove c'erano altri sette o otto bambini, ma raramente ci lasciavano insieme da soli. La notte, ad esempio, ci dividevano. Ogni tanto qualcuno spariva, alle volte venivano spostati da un accampamento all'altro, altre erano mandati a farsi esplodere".

Hai mai pensato alla possibilità di schierarti dalla loro parte, combattere con loro, per avere un'alternativa diversa al diventare un kamikaze?
"Non c'è mai stata possibilità di scelta. I bambini troppo piccoli per combattere o quelli che ritenevano poco convinti, e quindi pericolosi perché potevano ribellarsi, non venivano addestrati alle armi. Erano destinati a fare i kamikaze. Ti facevano il lavaggio del cervello per convincerti che comunque era giusto “perché gli infedeli rovinano l'Islam, bisogna ucciderli, è il dovere di ogni buon musulmano".

E come mai non sono riusciti a convincerti?
"Mio padre ha voluto che studiassi il Corano. So cosa c'è scritto e non dice assolutamente così".

E altri bambini invece ci credevano?
"Alcuni bambini non hanno avuto le possibilità che ho avuto io: credevano a quello che veniva detto loro, non avevano alternativa. Perché non avevano studiato e perché l'unica possibilità all'estrema povertà e a una vita di soprusi per loro era quella di diventare un talebano".

Hai mai pensato di farti saltare in aria?
"C'era poco da pensare. TI insegnano a metterti la cintura con l'esplosivo e quando spingere il bottone per farti saltare in aria. Io non ho mai pensato che sarei andato in paradiso per quello, ma urlare e ribellarsi non serviva. Ho visto uccidere due bambini della mia età perché non volevano andare. “I prossimi sarete voi” hanno detto a me e un altro".

Però poi non è successo…
"La preoccupazione dei talebani era che, una volta da soli con l'esplosivo addosso, potessimo consegnarci alla polizia rivelando cosa stesse accadendo. In realtà in Afghanistan all'epoca era difficile capire da che parte stesse la polizia... Comunque due volte hanno provato a mandarmi in “missione” e due volte ho mostrato quelle incertezze che loro tanto temevano. Per convincermi la prima volta mi hanno picchiato, la seconda mi hanno buttato addosso olio bollente, tanto da lasciarmi ustioni sulla testa, sulla schiena e soprattutto sul braccio, dove la carne era bruciata fino all'osso. Ma è stato allora che ho deciso di provare a scappare. Tanto sarei morto comunque".

"Io e l'altro bambino che doveva farsi esplodere con me, e che si era rifiutato, abbiamo chiesto da mangiare. Eravamo così malconci che pensavano che non potessimo muoverci e ci hanno lasciato soli. Ed è allora che siamo scappati. Ho corso fino a svenire. Poi non so più nulla, mi sono risvegliato in una camera che non conoscevo".

Hilal viene soccorso e salvato da un uomo che lo tiene nella sua casa per 9 mesi: “Non so nemmeno come si chiamasse, non me lo ha mai detto. Per lui era pericoloso, se un giorno mi avessero preso e io avessi fatto il suo nome lui e tutta la sua famiglia sarebbero stati a rischio”. Dopo 9 mesi l'uomo decide di farlo portare in Pakistan da un gruppo di trafficanti. Da qui passa in Iran, dove inizia a lavorare per una famiglia come tutto fare in cambio di vitto e alloggio. Dopo sei mesi decide di partire: in Iran senza documenti e senza un vero lavoro non ha un futuro. Riesce farsi portare in Turchia, dove resta 8 mesi: lavora in una fabbrica di pantaloni anche qui in cambio di vitto e alloggio e di una promessa: "Quando te ne vorrai andare ti aiuterò", gli dice il padrone. E quel momento arriva: destinazione Grecia, dove Hilal arriva a 14 anni e qualche mese. Ancora senza documenti, ancora con lavori, quando andava bene, sottopagati. Decide infine di partire per l'Italia dove riesce a raggiungere Roma e viene inserito in una comunità.

"All'epoca stavo male. La notte avevo gli incubi e non dormivo. Il giorno ero sempre arrabbiato e appena qualcuno mi toccava impazzivo e diventavo violento. C'è voluta tanta pazienza e tanto impegno, anche e soprattutto da chi mi è stato vicino: ho iniziato a stare meglio quando ho cominciato un percorso con uno psicologo. Presto hanno iniziato a curarmi anche con delle medicine: hanno scoperto che alcune reazioni erano dovute alle ferite alla testa inflittemi dai talebani con l'olio bollente".

"Piano piano la mia vita è ricominciata. Ho preso la licenza media, ho fatto un corso per pasticcere: ho iniziato ad avere delle giornate piene di cose da fare e di persone con cui parlare. Oggi ho una casa, una fidanzata, amici e colleghi".

Come fai oggi ad avere fiducia negli altri, negli adulti?
"Tutto quello che ho vissuto mi ha fatto diventare come sono oggi. Sicuramente dentro non sono un ragazzo di 21 anni, non solo per lo meno. Alle volte mi sembra di avere 30 o 40 anni. Però non voglio giudicare, soprattutto quelle persone che ho incontrato sulla mia strada dopo essere scappato dai talebani. Nei limiti di quello che potevano, e anche di quello che erano, credo che a loro modo mi abbiamo aiutato. Alla fine hanno permesso di portare a termine il mio viaggio".

C'è un ricordo del periodo passato con i talebani che ti fa più male?
"Ce l'ho addosso. Tutte le volte che guardo il mio braccio, mi ricordo quello che significa, quello che è successo. Quando vado al mare per esempio indosso una fascia dove ho la cicatrice. Capita che qualcuno mi chieda che cosa ho fatto. Rispondo sempre che mi sono fatto male facendo sport, perché non sempre mi va di raccontare la mia storia. Ma anche se non ne parlo, io so qual è la verità e sento tornare in me tutta la rabbia e il dolore per quello che è successo".

Quando hai capito di avercela fatta? Di aver trovato un posto per restare?
"E' stato quando ho avuto i documenti italiani e quando ho trovato un lavoro. Allora ho capito che finalmente avevo una strada da percorrere, un futuro".

Quale senti oggi come casa tua? L'Afghanistan o Roma?
"La tua terra è come una madre, è e sarà sempre con te. E quindi una parte di me è afghana e lo sarà sempre. Ma la tua casa, quella che senti come vera casa, è dove sei nato. E io a Roma sono nato una seconda volta".