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"Via da noi": la foto dei nuovi Paisà

Nuovo saggio di Elena Attala Perazzini sui connazionali che hanno scelto lʼAmerica: nostalgia per la famiglia, ma stregati da New York

elena attala pedrazzini, via da noi
dal-web

Presentare il proprio libro tra i disegni di Andy Warhol di certo non capita a tutti. A Elena Attala Perazzini è successo. Siamo a New York, più precisamente alla AntonKern Gallery di Chelsea, il quartiere delle gallerie di arte contemporanea che contano. Ed è qui che la "Segretaria dello scrittore" (tanto per citare il titolo di uno dei sui libri più noti di recente pubblicato come I miei giorni con Oriana Fallaci) ha presentato Via da Noi (Barbera editore), storie di italiani che hanno lasciato l'Italia per trasferirsi a New York. Tgcom24 ha incontrato Elena Attala Perazzini durante la presentazione al pubblico americano dei suoi libri. Ecco cosa ci ha raccontato.

Perché un libro sugli italiani che vivono in America?
"Volevo dar voce alle esperienze dei nuovi immigrati. Ci sono molti libri e film sulla massiccia ondata di immigrazione all'inizio del XX secolo, ma ben poco sugli italiani venuti in questo Paese nelle ultime decadi. Io sono arrivata a New York e ho sempre vissuto qui, così volevo capire cosa comportasse la scelta di un italiano che invece vive nei boschi della Virginia, come l'ingegnere in nanotecnologia Alessandra Luchini; o nella Los Angeles suburbana, come lo chef Angelini, in cui i rapporti sociali sono difficilissimi. La loro è una scelta molto diversa da quella di chi si è stabilito a New York. Volevo capire attraverso le loro esperienze le diverse realtà culturali che fanno dell'America un Paese a me ancora sconosciuto. E volevo naturalmente anche rispondere a me stessa. Al dilemma di rimanere o tornare, che mi tormenta fin dal primo giorno, e che ho scoperto tormenta molti italiani qui".

Quale storia le è piaciuta di più e perché?
"La storia di Giovannella Moscovici, la prima del libro. È una storia che parlare di grande amore. Amore per il proprio compagno col quale la scienziata romana ha condiviso la carriera di biologa, e amore e passione per il proprio lavoro. La prima volta che l'ho incontrata mi disse che da ragazzina si era innamorata della struttura della cellula e di suo marito nello stesso periodo. Mi è piaciuta la sua storia anche perché mi ha raccontato una fetta di storia americana. Lei è arrivata la prima volta qua alla fine degli anni '50 e ha vissuto in diverse città. A Cincinnati, a Pasadena, a Washington, dove incontrò grande discriminazione contro le donne nelle università, poi nel sud degli Stati Uniti in cui esisteva ancora l'apartheid. Ha partecipato al periodo degli hippy a Gainesville dove si era costituito il più grande accampamento di tutta la East Coast ed è stata testimone dell'omicidio di un collega. Insomma, la sua è una storia che meritava un romanzo! Infatti vorrei farlo in inglese".

Ci racconta invece la sua di storia?
"Io faccio parte di quel gruppo di italiani che non ha scelto gli Stati Uniti, ma ci è finito un po' per caso. È un Paese che ideologicamente non mi ha mai corrisposto. Però avevo la curiosità di conoscere New York e come tanti altri, anche di andare “Via da noi”, da noi italiani, allontanarmi dalla nostra mentalità. Sono arrivata qui e la città mi ha stregata. Ho fatto carte false (letteralmente) per rimanerci senza avere un progetto preciso, ma sentivo che la mia opportunità era qui e non altrove, gli stimoli che cercavo erano qui. E la capacità di ricominciare e reinventarsi che si incontra nelle facce dei newyorchesi ogni giorno mi ha subito affascinato. Così come l'aspetto multiculturale. New York mi ha accolta a braccia aperte, seppur presentandomi mille difficoltà di adattamento, perché dopo un paio di mesi dal mio ritorno definitivo c'è stato il lavoro come assistente di Oriana Fallaci. È stata un'esperienza dura, ma formativa; un impatto senza pietà, sia con la grande figura della Signora Fallaci che con la città, ma una prova che mi ha fatto maturare in fretta. La poetessa Dorothy Parker ha detto “Come solo i newyorchesi sanno, se riesci a superare il crepuscolo, sopravviverai alla notte.” E così ho fatto, compreso l'amore, che ho inseguito qui, ma che come tutti i veri amori è stato pieno di tormenti.

elena attala pedrazzini, via da noi
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Cosa manca secondo lei di più dell'Italia a chi in Italia non vive più?
"Ho intervistato più di 30 persone per scegliere le sette storie del libro e devo dire che a tutti manca la famiglia. È banale ma è così. Manca anche molto la spontaneità dei rapporti sociali, la semplicità di improvvisare lo stare insieme. Molti hanno sottolineato l'ossessione degli americani di pianificare troppo tutto. Uno dei miei personaggi dice, parlando a un amico californiano “Voi non conoscete la bellezza di fare le cose senza scopo, di licenziarvi per un po' dalla convenienza (...) E siete tutti ossessionati dal fatto di non perdere tempo. A quelli che vivono in posti remoti e con poco mix culturale, mancano le conversazioni esistenziali o politiche con le quali noi italiani concludiamo quasi sempre una cena. Hanno evidenziato la superficialità delle conversazioni, ma soprattutto il poco coinvolgimento politico. A questi manca anche la nostra cucina, in maniera irreparabile! E a tutti, dopo il decimo anno di soggiorno, scatta la nostalgia per le nostre bellezze, per la nostra storia, l'architettura e l'arte che se viviamo in Italia diamo per scontato".

E cosa fa più paura?
"La cosa che fa più paura è il ritorno a una mentalità non meritocratica e all'arte di lamentarsi".

Perché New York rimane la città preferita dagli italiani in fuga?
"Perché è il luogo delle opportunità, quello che ci hanno detto essere nella cinematografia hollywoodiana con cui siamo cresciuti. E perché è la più europea, quella che più si avvicina al nostro modo di essere. Il resto dell'America secondo me è davvero molto distante dalla nostra cultura".

La storia che vorrebbe raccontare e che non ha mai raccontato.
"Per sei mesi ho lavorato alla storia di un giovane artista arrivato qui a metà degli anni novanta che ha cominciato davvero da zero. Ha dormito sulle panchine del parco, ha vissuto in una casa con malati di Aids, ed è stato ospite nella profonda Brooklyn di una coppia pazzoide. Ora è famoso, e dopo tutti quei mesi di lavoro mi ha piantata in asso, nel senso che ha deciso di non pubblicare il suo racconto di vita. Lo capisco, comunque, non è facile aprirsi e offrirsi alle fauci del pubblico. Ho avuto difficoltà anche con altri personaggi del libro che hanno voluto modificare il racconto da me scritto. È stato un esperimento difficile, quello di raccontare una ricerca giornalistica in stile totalmente narrativo, ma a me piacciono le storie vere, non posso farci nulla".