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"Banche impopolari", l'opera-inchiesta sull'economia italiana

Un viaggio dentro la crisi del sistema creditizio locale raccontata da Andrea Greco e Franco Vanni

Negli ultimi anni oltre 500mila soci delle banche popolari italiane hanno dimezzato il valore delle loro azioni in Borsa, e in Veneto hanno perso tutto.

Da questa premessa prende le mosse il libro di Andrea Greco e Franco Vanni: "Banche impopolari. Inchiesta sul credito popolare e sul tradimento dei consumatori" (Mondadori, 224 pagine, euro 19). Nel loro viaggio dentro la crisi del sistema creditizio locale, i due autori descrivono l'evoluzione e i retroscena dei protagonisti del «romanzo bancario popolare» italiano e raccontano come un perverso intreccio di potere e denaro, risparmio e speculazione, abbia finito per trasformare le popolari da volano di territori e borghesie operose in infernali macchine mangiasoldi.

Per i lettori di Tgcom24 un estratto del libro:
Se è la Storia che scrive i libri, questo libro la Storia avrebbe dovuto scriverlo nel 1998, dopo che era stato approvato il riordino dell'antica legge bancaria del 1936 per recepire le nuove tendenze liberiste e reintrodurre la «banca universale», abilitata a svolgere tutti i mestieri del credito (la crisi nata dal crac di Lehman Brothers nel 2008 ha mostrato con quali benefici effetti). Tra i tanti provvedimenti che hanno accompagnato quella riforma, avviata cinque anni prima dalla Commissione Draghi, era prevista la trasformazione in società per azioni per quelle banche popolari che intendessero quotarsi in Borsa. Una clausola di buonsenso finanziario, per consentire a chi – tramite il mercato dei capitali – volesse investirvi quattrini la commisurata rappresentanza nella compagine azionaria e nel governo di quegli istituti.

Ma quella bozza del Testo unico bancario fu impallinata poco dopo in Parlamento, per il voto contrario di tutte le forze dell'arco costituzionale: dall'estrema destra all'ultrasinistra. È l'episodio che sei mesi fa, nei toni duri della campagna per il referendum sulla Costituzione del dicembre 2016, ha fatto parlare il sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti di «vittime della mala gestione delle banche venete, frutto di una mancata riforma delle popolari che nel 1998 fu pre-parata da Ciampi e Draghi ma non realizzata dal governo D'Alema. E che è stata realizzata diciassette anni dopo dal governo Renzi». Nel frattempo una decina di banche popolari si sono quotate a Piazza Affari, senza rinunciare al principio statutario «una testa, un voto», che è un po' l'opposto delle società capitalistiche rette dal criterio «un'azione, un voto».

E all'ombra di questa ambivalenza che garantiva una doppia natura alle popolari quotate (ma anche alle non quotate, comunque sempre più spinte verso il mercato per la raccolta di capitali e di liquidità) è cresciuto un mondo pieno di distorsioni nel governare gli istituti e gestirne i crediti; in certi casi, come quelli di Banca Etruria, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, ci sono state gravi crisi societarie che hanno provocato seri danni all'economia italiana, turbolenze a Piazza Affari e perdite miliardarie per i soci-investitori e obbligazionisti(la direttiva europea Brrd sulla risoluzione delle crisi bancarie dal gennaio 2016 include i sottoscrittori di bond subordinati e i correntisti con giacenze oltre i 100.000 euro tra chi, insieme agli azionisti, deve accollarsi la prima perdita delle banche in crisi). L'ex Popolare di Arezzo, tra i più severi casi di depauperamento patrimoniale che la vigilanza ricordi, è stata salvata due volte: prima dagli operatori concorrenti, poi da Ubi, che ne ha raccolto le spoglie col cucchiaino. Quanto ai due istituti veneti, che hanno tentato e fallito l'assalto al cielo con le operazioni baciate al di fuori di ogni prassi e regola gestionale, per tenerli in vita e cercare di fonderli in uno sono serviti i miliardi dei concorrenti, oltre a quelli dei contribuenti. C'è scappato anche il morto in Veneto, la regione più colpita dalla crisi bancaria ormai in pieno atto. In altri casi, e in vario grado, le banche locali hanno perseguito mire di grandezza effimere o dannose, prestato i soldi dei clienti in modi erronei o con logiche clientelari, tenuto alti costi e stipendi e distribuito meno utili di quel che avrebbero potuto. Se ne parlerà nei prossimi capitoli a proposito di Ubi, Bpm, Banco popolare, Bper, Popolari di Bari, Marostica e Sondrio, Credito Valtellinese e altri istituti di credito.

La «lobby popolare», ramificata in tutta la rosa dei partiti politici e nel consociativismo serpeggiante nei rapporti con i sindacati e le autorità di controllo, ha saputo fare troppo bene il suo mestiere e ha respinto per decenni ogni proposta o iniziativa, fosse in buona o in mala fede, volta a insidiare lo status quo: lo ha dimostrato in quel passaggio cruciale del 1998, e da lì fino all'altro ieri, quando la riforma del governo Renzi con un tratto di penna ha imposto la trasformazione in società per azioni alle dieci banche mutualistiche più grandi. A oltre due anni dal decreto del gennaio 2015, si può serenamente dire che non è stato un buon metodo di riforma lasciare ammalorare la gestione di alcuni istituti, salvo poi metterli tutti sulla graticola con un diktat che potrebbe privare l'Italia di uno dei tre perni del suo sistema creditizio: tanto più nell'attuale fase di turbolenza dei mercati, dove sarebbe prezioso preservare quella che un tempo era chiamata «la seconda linea della liquidità», fornita dai clienti-soci delle banche popolari. Famiglie, imprese e lavoratori dai connotati spesso più stabili rispetto ai prestatori dei mercati finanziari, così poco efficaci che già nel 2008, poi nel 2011 e ancora nel 2016 hanno bloccato – causa panico – la provvista del sistema creditizio nazionale(nei primi due casi ha dovuto pensarci la Bce, lo scorso dicembre anche il Tesoro con garanzie su emissioni bancarie fino a 80 miliardi). Che la riforma del governo Renzi e la sua declinazione fornita dalla Banca d'Italia non siano esenti da pecche lo hanno ormai stabilito sia il Consiglio di Stato sia, preliminarmente, la Corte costituzionale, che presto tornerà a pronunciarsi sulla materia. Vedremo quali ragioni l'Alta Corte riconoscerà a chi oggi cerca di respingere la riforma così com'è, anche per difendere gli interessi del vecchio mondo cooperativo (che comunque ha il torto di non aver saputo o voluto cambiare prima e con più concordia le cose).

Una sintesi la offre Marco Vitale, economista e socio della Popolare di Sondrio, primo firmatario del ricorso ai giudici amministrativi il 2 dicembre 2016: «Sono vent'anni che mi batto accanitamente per la riforma delle popolari, sempre rinviata perché Assopopolari e molte banche mutualistiche, sbagliando, hanno rifiutato progetti di cambiamento anche seri. Ma questa legge è così grossolana, violenta, barbara e arbitraria in alcuni passaggi che non poteva essere accettata: infatti il Consiglio di Stato ha eccepito sospetti di costituzionalità per almeno 10 articoli. I tempi erano maturi per una riforma, anche decisa ed energica: ma che fosse rispettosa della Costituzione italiana». Fossero state vinte prima, le resistenze dei ceti bancari locali a un'evoluzione più armonica della specie per affrontare le sfide spietate della modernità, la Storia sarebbe stata certo diversa. Questo libro, scritto da cronisti che cercano di raccontare e interpretare ciò che vedono e sentono senza pregiudizi, descrive il crepuscolo del credito mutualistico in Italia. Un crepuscolo che ora sembra troppo repentino dopo centocinquant'anni a volte gloriosi, altre volte meno, ma in cui il modello popolare era sempre riuscito a reggersi, sull'asse che saldava le due esigenze delle borghesie di provincia: ottenere servizi bancari di base e investire i sudati risparmi in un bene noto, stabile e tangibile. Solo che quello «scambio di prestigio» tra attori locali si è spesso trasformato in uno «scambio di favori» tra manager e clienti-soci, con dinamiche completamente slegate sia dai valori della prossimità mutualistica sia dalle logiche di mercato, e sotto l'occhio in teoria vigile della Banca d'Italia, cui toccava vigilare, e che formalmente lo ha sempre fatto; ma con un'efficacia talvolta perfettibile, e spesso messa in imbarazzo dalla scelta di puntare su alcuni notabili locali – tra i quali l'ex presidente della Banca popolare di Vicenza, Gianni Zonin, ma non solo lui – per esigenze di consolidamento e migliore stabilità del sistema. Il salto di cascata che si para davanti, di cui la riforma Renzi è più l'effetto che la causa, è reso possibile e quasi fatale dagli snodi recenti della storia delle popolari; una storia che dagli anni Novanta è stata soprattutto di resistenza alla modernizzazione e di mal riposte ambizioni di crescita, imperniate spesso sugli slogan autarchici di alcuni cacicchi creditizi locali. Roba da strapaese, più che vanto dei ridenti campanili. Troppe volte, specie nell'ultimo decennio, le banche a statuto cooperativo hanno sofferto più delle rivali, per essere meno attrezzate nei sistemi di controllo, più autoreferenziali nei gruppi dirigenti, meno diversificate nei rischi, concentrati in tanti distretti economici che ormai sono lo scheletrico ricordo di quel che furono dal secondo dopoguerra a prima della globalizzazione. Tra chi assisteva impotente al veto parlamentare alla riforma «popolare» proposta vent'anni fa dalla Commissione di esperti radunata intorno al futuro presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, c'era Alessandro Penati, giovane professore dell'Università Bocconi.

Proprio l'economista e gestore del fondo Quaestio Sgr – ricorsi della Storia – che oggi si trova a dover lavare i panni sporchi delle popolari e, tramite il Fondo Atlante, il consorzio formato dalle banche concorrenti per evitare conseguenze più gravi di contagio e fuga dei depositi, ne è il primo investitore sono già 3,5 i miliardi profusi sull'altare di Popolare di Vicenza e di Veneto Banca per tenerle in vita, raccolti principalmente dalla pletora degli istituti italiani, che teme l'effetto contagio in caso di crac; e altri miliardi serviranno per fonderle). Il ristoro che le due ex popolari venete stanno offrendo ai loro soci, circa il 15% delle loro perdite nel capitale, è più che altro un modo per arginare le cause legali e chiudere i conti con il passato, altrimenti presto si andrà alla nazionalizzazione o, peggio, alla liquidazione. Ma questo, più che di storia, è un libro di storie. Quelle che abbiamo cercato e raccolto per far capire ai lettori – tra cui speriamo ci siano gli 1,3 milioni di soci delle popolari, soprattutto i quasi centomila che hanno perso molto o tutto; e non è finita, perché molti altri rischiano di dover vendere le loro azioni a prezzi decimati – che niente succede per caso. È il bello della Storia, come delle storie: c'è l'evoluzione dalla scimmia all'uomo e c'è l'estinzione dei dinosauri, e tutto si spiega. Nell'Italia bancaria odierna, spazzata dalla recessione e dai tassi sotto zero, minacciata dalla marcia tecnologica e dalla concorrenza digitale, la biodiversità creditizia sembra doversi ridurre a una più brutale competizione tra istituti che sopravvivono e altri che non ce la fanno. Così le popolari, specie le maggiori, somigliano oggi ai dinosauri.

Alcune riusciranno a diventare grandi banche commerciali, chiamate a rinsaldare un rapporto con il territorio elettivo e a relazionarlo con il mondo. Altre non ce la faranno e saranno aggregate, spacchettate o, peggio, «risolte» (nuovo eufemismo bancario con cui la vigilanza declina la liquidazione delle controllate). Altre, forse soprattutto le più piccole, resteranno banche di prossimità territoriale, polarizzate verso la nicchia delle banche di credito cooperativo (Bcc), a loro volta oggetto di riforma governativa e accorpamento. Il futuro dirà tutto, mentre il presente dice i danni collaterali di questo ritardo morfologico del sistema normativo, istituzionale e competitivo, che la prolungata e severa crisi italiana di questi anni ha fatto esplodere.