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Varese, delitto Macchi: Stefano Binda condannato all'ergastolo

La studentessa fu uccisa con 29 coltellate e trovata nel gennaio del 1987 in un bosco a Cittiglio

Varese, delitto Macchi: Stefano Binda condannato all'ergastolo - foto 1
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I giudici della Corte d'assise di Varese hanno condannato all'ergastolo Stefano Binda, unico imputato per l'omicidio di Lidia Macchi, la studentessa trovata uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto.

L'imputato è stato inoltre condannato al pagamento di una provvisionale di 200mila euro a Paola Bettoni, madre di Lidia, e di 80mila euro a Stefania e Alberto Macchi, sorella e fratello della vittima.

Pg: "Vittoria di chi ha voluto la verità" - E' "un giorno di sollievo, perché finalmente è stata stabilita una verità processuale che corrisponde a quella storica", ha commentato il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi. "Oggi è un giorno di dolore per tutti - ha aggiunto - per i familiari della vittima e anche per il colpevole, ma è un affermazione dello Stato e di tutte le persone che hanno voluto la verità".

Nei giorni scorsi, l'avvocato difensore di Binda aveva chiesto che il suo assistito venisse assolto "con la formula più ampia possibile". Nel suo discorso conclusivo ai giudici, il legale aveva spiegato come la tossicodipendenza di Binda, secondo i periti dell'accusa tale da impedirgli di poter stare a lungo costretto in luoghi o situazioni controllate quali la vacanza di gruppo a Pragelato (località sciistica sulle Alpi piemontesi, ndr), da sempre alibi del 50enne rispetto all'omicidio, sarebbe invece peggiorata solo successivamente al periodo universitario.

Difesa Binda: "Sentenza ingiusta e inaspettata" - "Siamo in coscienza convinti che la soluzione adottata sia ingiusta". E' il commento amareggiato dell'avvocato Sergio Martelli, difensore insieme alla collega Patrizia Esposito di Binda. Per Martelli è una "sentenza inaspettata anche se, trattandosi di un processo mediatico che ha fatto la storia di un tribunale, sapevo che il peso sarebbe stato notevole, non so poi se questo ha influito". "Penso sempre che i giudici arrivino a usare il buon senso - ha proseguito - hanno ritenuto che sia stato colpevole, noi non abbiamo trovato elementi per una condanna, quindi aspettiamo le motivazioni e vedremo, andremo avanti".

Si chiude così il primo processo su uno dei più grandi "cold case" della cronaca nera italiana. La svolta arrivò nel gennaio 2016, con l'arresto chiesto e ottenuto da Carmen Manfredda, il magistrato della procura generale di Milano che, nel luglio 2014, aveva assunto la titolarità dell'indagine fino a quel momento condotta, senza risultati, dalla procura di Varese.

In manette finì il 50enne di Trebbia, ex compagno di liceo di Lidia e membro assieme a lei del movimento di Comunione e Liberazione e che già a 16 anni era dipendente dall'eroina. Prima dell'assassinio della studentessa, i due erano molto amici e frequentavano la stessa cerchia di conoscenti. A tradirlo, secondo l'accusa della procura generale di Milano, è la perizia grafologica che lo ha indicato come autore di "In morte di un'amica", componimento in versi recapitato alla famiglia Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia, che contiene una descrizione della scena del delitto e che per questo è stato immediatamente attribuito dagli inquirenti all'assassino della studentessa.

Fu Patrizia Bianchi, poi sentita come testimone chiave nel processo di Varese, a notare una notevole somiglianza tra la grafia del componimento (pubblicato nella sua forma manoscritta da un giornale locale) e quella di alcune cartoline che le erano state inviate da Binda in gioventù. Insospettita, la donna consegnò le quattro cartoline agli inquirenti della squadra mobile di Varese. Chi le scrisse, stabilì la successiva consulenza grafologica, è la stessa persona che vergò il componimento. Vale a dire il killer di Lidia.

Il processo contro Binda prese il via nell'aprile 2017 con un colpo di scena. Durante la prima udienza, infatti, i difensori annunciarono di aver saputo che un avvocato di Brescia aveva ricevuto mandato da un uomo misterioso che rivendicava la paternità del componimento. Il legale bresciano Piergiorgio Vittorini fu poi ascoltato in aula come testimone, ma decise di trincerarsi dietro il segreto professionale: "So chi ha scritto quella lettera, ma non posso rivelarne il nome".

Per l'accusa, oltre alla consulenza grafologica, sono anche altri gli indizi contro l'imputato. Come il libro e la cartolina sequestrati nella sua abitazione che conteneva lo stesso simbolo, un cerchio attraversato da una riga, vergato in calce al componimento "In morte di un'amica". O come il foglietto con scritto a mano "Stefano barbaro assassino" ritrovato su una sua agenda dell'anno 1986. E ancora, la Smemoranda del 1989 intestata, in prima pagina, a "Binda Stefano che però si è pentito". Infine i testimoni ascoltati nel processo che hanno riferito di aver notato una berlina chiara, simile a quella all'epoca posseduta da Binda, posteggiata la sera del delitto davanti all'ospedale di Cittiglio, dove Lidia si era recata per visitare un'amica ricoverata.

Tutti indizi ma nessuna prova secondo i difensori di Binda, il quale sin dal giorno dell'arresto ha sempre respinto ogni accusa proclamando la sua innocenza. Interrogato in aula, il 50enne aveva negato di essere l'autore della poesia attribuita al killer ribadendo il suo alibi: "In quei giorni ero in vacanza a Pragelato, ma non ricordo chi fosse con me". A scagionarlo, secondo i suoi difensori, è però soprattutto un elemento: i quattro capelli ritrovati sui resti della vittima dopo la riesumazione del cadavere disposta nel marzo 2016 per nuovi accertamenti. Capelli, hanno stabilito i periti del Tribunale di Varese, che non sono riconducibili né a Lidia né ai suoi parenti. E che soprattutto non appartengono a Binda.

Per la difesa, era la prova della sua innocenza. Secondo l'accusa, invece, sarebbero di una persona che non ha nulla a che fare con il delitto e potrebbero essere la conseguenza di una "contaminazione" probabilmente da parte di chi si era recato alla camera ardente nei giorni precedenti ai funerali e aveva toccato il corpo della studentessa per un ultimo addio.