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Cassazione: "vaffa" non è offesa

"Ormai fa parte del linguaggio comune"

Per la Cassazione il "vaffa" fa parte del linguaggio comune e non è più un'offesa.

I giudici, infatti, hanno assolto un consigliere comunale di Giulianova (Teramo) dall'accusa di ingiuria perché aveva mandato a quel paese il vicesindaco durante un consiglio comunale. Vi sono "talune parole e anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni, sono diventate di uso comune e hanno perso il loro carattere offensivo".

Con la sentenza 27966 la V Sezione Penale della Corte di Cassazione ha ribaltato così la sentenza del Tribunale d'Appello de l'Aquila, che in un primo momento aveva condannato il consigliere comunale.

Secondo piazza Cavour, "l'uso troppo frequente, quasi inflazionato" di parolacce quali appunto quella in questione, "ha modificato in senso connotativo la loro carica: il che ha determinato e determina certamente un impoverimento del linguaggio e dell'educazione", anche se "in numerosi casi l'impiego" di espressioni di questo tipo non supera "più la soglia della illecità penale".

Il battibecco tra i due era nato dopo una frase del vicesindaco "evocativa di errori passati del comunismo ma del tutto qualunquistica". Il consigliere comunale lo aveva mandato, senza tanti giri di parole, a quel paese.

Sdoganato il "vaffa"
La Cassazione, dunque, sdogana il mitico "vaffa". Ma non in tutti i casi, sottolineano i giudici. Ci sono espressioni volgari che non perdono la loro connotazione ingiuriosa. Questo accade "dal contesto in cui si inseriscono le espressioni: è evidente che se queste vengono pronunciate nei confronti di un'insegnante che va un'osservazione o di un vigile che dà una multa esse assumono carattere di spregio".

Tutt'altra cosa, invece, se gli insulti avvengono tra "pari", vale a dire "nel discorso che si svolge tra soggetti in posizone di parità e in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto".

A volte, sostiene piazza Cavour, il "vaffa" non deve essere inteso come un'offesa rivolta all'onore e al decoro dell'altra persona bensì soltanto "volgare manifestazione di insofferenza".